Il rifiuto della carriera per la riappropriazione della felicità

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Mi ha destato un certo raccapriccio vedere sul web la foto della dipendente di Twitter mentre dorme sul pavimento del suo ufficio. Esther Crawford si è fatta immortalare dentro il sacco a pelo, accanto alla postazione, per dimostrare al nuovo proprietario Elon Musk la sua incrollabile devozione all’azienda.

Ora un coinvolgimento emotivo del genere non ha niente a che vedere con la devozione al lavoro bensì con la dignità! Sacrificare la propria vita per la carriera è insano anche da un punto di vista collettivo, osserva il giornalista Alessandro Sahebi che è esperto in tematiche del lavoro.

Come “collettivo”? Sì perché spinge più in alto l’asticella dell’abnegazione, rendendo lecito un gesto di sudditanza ancora più disperato. Scrive Sahebi:

«L’etica lavorista promossa dal pensiero neoliberale è funzionale allo sfruttamento: ciò che facciamo non è mai abbastanza, chi non si spinge oltre ai propri limiti è destinato a perire. Un terreno di eterna competizione e abnegazione dove giustizia e solidarietà non trovano alcuno spazio di espressione. “Innamorarsi” della propria azienda o del proprio capo è un’illusione emotiva perché molto lontana dai sinceri rapporti umani di affetto».

Quindi l’amore per la propria azienda non è un sentimento puro, bensì un inganno mosso dalla paura nei confronti di chi controlla le carriere.

Eppure, preferire il benessere al successo professionale è qualcosa che è stato già teorizzato in tempi non sospetti, nella iperproduttiva Germania peraltro. Nel 2014 la giornalista Alix Fassmann decise di abbandonare il suo impiego da addetta stampa della SPD (il Partito Socialdemocratico tedesco) e di intraprendere un viaggio in Italia. Durante il suo soggiorno sabbatico in Sicilia incontrò Anselm Lenz, autore teatrale presso il Deutsche Schauspielhaus di Amburgo che, stanco a sua volta di sacrificare il tempo sull’altare della carriera, si era licenziato e pure aveva lasciato il Paese. Anselm rimase affascinato dalle idee di Alix sul senso del lavoro e la convinse a raccoglierle in un libro.

Haus Bartleby

Il testo della Fassmann vide la luce di lì a pochi mesi, “Il lavoro non è la nostra vita: guida al rifiuto della carriera” – in tedesco Arbeit ist nicht unser Leben, edito da Lübbe – è una sorta di manifesto programmatico che nel medesimo anno portò i due alla fondazione a Berlino di Haus Bartleby, ovvero il “centro per il rifiuto della carriera”.

Qui iniziarono a riunirsi uomini e donne, professionisti dei settori più svariati, legati dall’intento comune di trovare un’alternativa al sistema lavorativo che frustrava la loro vita. Questo zentrum aveva scelto il suo nome richiamandosi al romanzo di Herman Melville, Bartleby lo scrivano. Il protagonista del libro lavora presso uno studio legale di Wall Street e un giorno, dopo un periodo di attività intensissima, si rifiuta di continuare la sua mansione pronunciando la nota frase “I would prefer not to”, che è stato appunto lo slogan dell’associazione berlinese.

Haus Bartleby, attiva fino al 2020, ha organizzato una serie di conferenze sul future of work con ospiti illustri – tra i quali l’economista ed ex ministro delle finanze greco Yannis Varoufakis o il filosofo sloveno Slavoj Žižek – e la sua eredità è ancora oggi una serie di pubblicazioni che hanno destato molto interesse in Germania e Austria.

Ovviamente l’impostazione critica era di stampo anti-capitalista: a chi serviamo quando ci dedichiamo alla promessa della carriera? Non a noi stessi – sosteneva la Fassmann – se il nostro lavoro è determinato soltanto dalla pressione sociale che impone il raggiungimento di una posizione adeguata alle aspettative nostre o di chi ci circonda. Ma in fondo, nemmeno agli altri, se il risultato di tanti processi produttivi, materiali o intellettuali, è soltanto aria fritta.

Non si tratta di oziare, ma ricercare una forma d’impegno che metta al centro la felicità individuale e collettiva.

Altro che i dibattiti su smart working o worklife balance, la signora Crawford ha proprio dormito sul pavimento sbagliato.

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Francesco Sani
Giornalista Pubblicista laureato in Sociologia all'Università di Firenze. È Direttore della rivista Firenze Urban Lifestyle e collabora con altri magazine e blog su temi attinenti Cultura, Ambiente e Società. Scrive e ha scritto per Il Fatto Quotidiano, Smart Working Magazine e Artribune.
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Francesco Sani
Giornalista Pubblicista laureato in Sociologia all'Università di Firenze. È Direttore della rivista Firenze Urban Lifestyle e collabora con altri magazine e blog su temi attinenti Cultura, Ambiente e Società. Scrive e ha scritto per Il Fatto Quotidiano, Smart Working Magazine e Artribune.
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