Mi (ri)trovo a Roma in uno di quei luoghi (non ce ne sono più di tre o quattro) frequentati da persone che “contano”. L’atmosfera è sempre la stessa, cordiale e un po’ geriatricamente goliardica, così come gli argomenti, a partire dall’immancabile partita di calcio della domenica precedente che mi trova sempre del tutto impreparato…
Superate, più o meno incolume, le forche caudine calcistiche, quasi sempre si passa al tema del lavoro. C’è il tipo, un po’ in sovrappeso e con una fronte “molto” alta, che racconta di quando da giovane nessuno si permetteva di alzare la testa, così come non manca mai quello bassetto, in un doppiopetto certamente non esaltante, che con soddisfazione racconta di avere esternalizzato tutto in Romania.
Sono un po’ infastidito da questo modo tanto arrogante quanto inveterato di pensare e, maledicendo me stesso per quello che mi accingo a fare (ma anche un po’ Cervantes per avere scritto uno dei più bei romanzi della storia), sento di dover indossare l’armatura del Don Chisciotte che è in me e di inforcare il mio Ronzinante.
Così, come un vero cavaliere errante, mi lancio contro i “miei” mulini a vento, ma invece di un’asta di legno utilizzo l’argomento della “settimana corta” nel mondo del lavoro, cercando di raccontare i vantaggi che questo modo di lavorare potrebbe avere per i lavoratori, per le aziende e per la collettività in caso di implementazione su larga scala.
Il risultato è prevedibile: come accadde a Don Chisciotte, anche la mia lancia rimane incastrata tra le pale del mulino e si spezza, facendomi cadere rovinosamente a terra.
Intorno a me percepisco forte diffidenza e il sincero stupore di chi è ancora convinto che lavorare bene significhi solo “faticare il più possibile”, dimenticando che se questo poteva essere vero nel recente passato, oggi tutto è cambiato e che ormai non vi è né l’utilità, né la necessità di lavorare tanto; il futuro del mondo del lavoro, soprattutto in un Paese ormai di “nicchia” come l’Italia, non può che puntare sulla qualità (e non sulla quantità) delle attività svolte.
Ma per queste persone è difficile prendere atto del fatto che l’Intelligenza Artificiale non è alle porte ma già nelle nostre vite e che, quindi, non servirà più lavorare “tanto”, ma sarà sempre più necessario lavorare “meglio”.
Ho un déjà vu. Questa stessa identica conversazione l’ho avuta ormai più di cinque anni fa, quando la mia lancia “spezzata” si chiamava smart working e tutti credevano che fosse “impossibile” lavorare con maggiore flessibilità nella scelta dei luoghi e degli orari.
La “battaglia” sullo smart working è stata vinta grazie a molti Don Chisciotte che ci hanno creduto; la frontiera di oggi è quella di un’importante rivoluzione del modo di intendere la settimana lavorativa.
Ci sono grandi aziende e istituti bancari che stanno già “sperimentando” questo modo nuovo di organizzarsi e all’estero molti Paesi “leader” non solo si stanno interrogando sull’argomento, ma stanno già implementando nella realtà sistemi a quattro giorni lavorativi a settimana. L’Inghilterra, il Belgio, i Paesi Scandinavi e anche il Giappone sono ricchi di progetti sulla settimana lavorativa corta e molti indicatori di ricerca rappresentano miglioramenti di performance aziendali e redditività.
La mia armatura donchisciottesca è un po’ ammaccata dalle batoste, ma rialzandomi e scuotendomi la polvere di dosso, mi sembra di intravedere l’inconfondibile sagoma del grande Winston Churchill, che con il suo sorriso sardonico mi sussurra una sua celebre frase del periodo in cui la guerra non stava andando bene: “Non sempre cambiare equivale a migliorare, ma per migliorare bisogna cambiare”. Decido, quindi, di accomiatarmi dai miei antipatici interlocutori e di consolarmi sorseggiando un bicchiere di rum; come mi piacerebbe far provare il mio Don Papa a Churchill per chiedergli come si vince una guerra che tutti danno per persa! Lui, per nostra fortuna, ne sa qualcosa e io non ho intenzione di mollare.