Nella vita non c’è (più) solo il lavoro

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Mario Draghi lo ha detto il 16 aprile alla Conferenza Europea sui diritti sociali organizzata dal Belgio, presidente di turno dell’UE: “Non si possono più prendere decisioni come se fossimo nel 2019”. Vale per le istituzioni, vale per le aziende e per le persone. Sembrerà banale ma non lo è. La verità infatti è che dopo la pandemia c’è stato un cambiamento profondo, soprattutto nel mondo del lavoro, ad esempio per molte persone l’occupazione non è più la sola cosa che conta. 

In un recente articolo sul Wall Street Journal, a firma del giornalista canadese Greg Ip e dal titolo Americans don’t care much about work. And it isn’t just Gen Z, si legge che se il mercato del lavoro sembra tornato ai livelli pre-Covid19 – con bassa disoccupazione, salari in crescita e l’inflazione che sta rientrando – sotto la superficie tutto è cambiato.

L’assunto è che le persone non hanno più il lavoro al centro della propria vita e vogliono più tempo per se stessi e la famiglia, ma pure maggiore flessibilità di decisione su dove e quando lavorare. A giudizio di Ip, almeno per il mercato americano, ma probabilmente vale anche per l’Europa, c’è una carenza di personale per quei lavori che richiedono presenza e orari fissi. Questo costringerebbe le imprese a preoccuparsi non solo del livello di stipendi offerti, ma anche della qualità della vita dei propri collaboratori. Tradotto: orari più brevi, lavoro da remoto, benefit aziendali. 

In conclusione del ragionamento, non ci sarebbe più dal punto di vista economico una divisione dei frutti della crescita tra capitale e lavoro, perché adesso una quota a vantaggio del lavoro si dirotterebbe in domanda di servizi di welfare aziendale.  

Lavoratori da remoto di tutto il mondo unitevi!

No, tranquilli non ho intenzione di rivisitare lo slogan dell’Internazionale Socialista, semplicemente milioni di lavoratori a livello globale hanno preso una nuova coscienza. Cosa è successo?

La pandemia ha spostato milioni di lavoratori in tutto il mondo da postazioni materiali, spesso in sede, a postazioni virtuali. Qualcuno si è sentito più libero, altri si sono sentiti disorganizzati, ma in ogni caso il risultato nel lungo periodo è stato un minor appeal del “posto di lavoro”, della propria scrivania e degli orari.

Questa nuova consapevolezza non ha riguardato solo la Generazione Z, quella più ricercata dagli HR perché ben istruita e ricca di giovani talenti, ma l’intera platea stessa dei lavoratori. Ci sono dati che paiono confermare una presenza temporale minore al lavoro: nel 2023, negli USA, quelli che avevano una mansione o un’attività hanno mediamente lavorato 30 ore in meno rispetto al 2019 a stipendi invariati. La semplice teoria dell’economista Yongseok Shin è che semplicemente lo smart working ha permesso di ridurre il tempo di occupazione senza contrazione di salario, come peraltro già osservato in un precedente articolo su questo blog.

Nuovi spazi di lavoro e postazioni vuote

Secondo il Wall Street Journal, solo negli USA a inizio 2024 il 40% delle aziende aveva almeno una postazione vuota. Nei grattacieli semi-deserti dei centri direzionali delle metropoli è ancora più evidente, con una certa ricaduta sul mercato immobiliare degli uffici. Molte realtà hanno dovuto ripensare i loro spazi di lavoro, addirittura ci sono multinazionali che hanno traslocato in sedi più piccole a causa dell’ampia diffusione del lavoro da remoto. Tuttavia, per molti manager “l’assenza” gioca a discapito della carriera dei talenti della Generazione Z: in molte realtà è difficile misurare la produttività individuale.

In ogni caso, è da ritenersi improbabile che la minaccia di compromettere la propria carriera susciti nelle persone la stessa “sottomissione” di prima. In troppi hanno scoperto che nella vita non c’è (più) solo il lavoro, ma altro a cui dare importanza, a partire dal tempo libero. Pur di non rinunciarci, sono disposti ad accettare il rischio di lasciare proprio il lavoro. 

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Francesco Sani
Giornalista Pubblicista laureato in Sociologia all'Università di Firenze. È Direttore della rivista Firenze Urban Lifestyle e collabora con altri magazine e blog su temi attinenti Cultura, Ambiente e Società. Scrive e ha scritto per L'Espresso, Il Fatto Quotidiano, Smart Working Magazine e Artribune.
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Francesco Sani
Giornalista Pubblicista laureato in Sociologia all'Università di Firenze. È Direttore della rivista Firenze Urban Lifestyle e collabora con altri magazine e blog su temi attinenti Cultura, Ambiente e Società. Scrive e ha scritto per L'Espresso, Il Fatto Quotidiano, Smart Working Magazine e Artribune.