Il 4 novembre in Regno Unito è partito un altro test su larga scala per la settimana corta a parità di salario, esperimento voluto dal governo laburista. Coinvolgerà 1.000 lavoratori in 17 aziende nei settori dei servizi pubblici e dell’assistenza sanitaria, è sostenuto dai sindacati e sarà gestito dall’organizzazione no profit Four Days Week Campaign. Le imprese coinvolte dovranno scegliere se implementare una settimana lavorativa di quattro giorni o un giorno in più di ferie ogni due settimane.
I risultati saranno resi noti per l’estate 2025 e, se saranno positivi, il modello potrebbe nuovamente essere esteso. Attualmente sono quasi 200 le imprese britanniche che hanno adottato in via permanente la settimana corta a parità di salario. Il ministro dell’Istruzione Jacqui Smith ha affermato in un’intervista che il governo del premier Keir Starmer ha intenzione di far approvare un pacchetto di leggi definito come “il più grande miglioramento dei diritti dei lavoratori da generazioni”.
L’idea è quella di conferire alle persone il diritto di chiedere orari compressi, ad esempio giornate di 10 ore e una di riposo in più. Secondo Smith, il lavoro più è flessibile e più la produttività ne è favorita.
Dal Regno Unito all’Islanda, un modello che pare soddisfare tutti
Sempre in un’altra isola fuori dall’Unione Europea, ovvero l’Islanda, con l’introduzione della settimana corta l’economia sta andando a gonfie vele e la metà della popolazione lavorativa è già impiegata per 35 o 36 ore settimanali. La ricerca dell’Associazione Islandese per la Sostenibilità e la Democrazia ha infatti stimato che nel 2023 la crescita islandese ha registrato un +5%, a fronte del +0,4% dell’Eurozona.
Qui i primi esperimenti erano stati fatti dalla municipalità della capitale Reykjavik tra il 2015 e 2029 e avevano evidenziato una maggior produttività, tanto che da allora i nuovi accordi sindacali hanno incorporato il diritto a orari più brevi.
In Islanda il primo esperimento generale aveva coinvolto 2.500 lavoratori, principalmente nel settore pubblico, ma oggi ben l’86% della forza lavoratrice dell’isola ha il diritto di negoziare una riduzione di lavoro. Il tasso di soddisfazione è altissimo, ben il 97% degli intervistati pensa che gli orari lavorativi ridotti abbiano reso più semplice il worklife balance ed è soddisfatto del tempo impiegato nella propria mansione.
E l’Italia?
In Italia il governo non ne vuole sentire parlare di settimana corta, ha tentato di affossare le tre proposte di legge presentate dell’opposizione (13 ottobre 2022 a firma Nicola Fratoianni, 15 marzo 2023 a firma Giuseppe Conte e 20 ottobre 2023 a firma Elly Schlein) con una serie di emendamenti soppressivi. Tuttavia la discussione ripartirà a gennaio, vedremo.
Però c’è una novità. A novembre è stato raggiunto un accordo per il rinnovo del contratto collettivo nazionale dei dipendenti ministeriali e alcuni sindacati che, tra le altre cose, prevede – novità assoluta in Italia – la possibilità del personale di accedere alla settimana lavorativa di 4 giorni a parità di retribuzione e orario (36 ore da spalmare). In questo modo il ministero della Pubblica Amministrazione spera di ringiovanire un settore che ha perso l’appeal a causa di basse retribuzioni e un approccio lavorativo basato sulle procedure e non sul risultato.
Qui a Workitect avevamo già affrontato su questo blog il tema della settimana corta con l’Avv. Sergio Alberto Codella. Il tema meriterebbe sui media italiani mainstream maggior dibattito, in un momento in cui l’ultimo rapporto ONU sulla salute mentale a livello globale evidenzia come l’ossessione per la crescita economica abbia creato una “economia del burnout” tra i lavoratori. Siamo ancora abituati a misurare le ore ma non quanto siamo produttivi, perché pensiamo il lavoro sulla variabile del “tempo” e non sulla “qualità”.