In tutta Italia gennaio è il mese dei saldi invernali. Attenzione al risparmio e fenomeno di consumismo accelerato allo stesso momento, ma in fondo il “consumo consapevole” non esiste.
Nel 2020 in Germania è stato pubblicato un sondaggio su 1.000 cittadini maggiorenni ai quali è stato chiesto il loro comportamento in merito a “consumo e tutela dell’ambiente”.
Il 75% degli intervistati ha dichiarato che l’acquisto consapevole può persuadere il settore manifatturiero ad espandere l’offerta di prodotti “più sostenibili”. Tuttavia solo il 38% di loro, alla successiva domanda, era disponibile a modificare le proprie abitudini di consumo. Perché esiste questa contraddizione?
“The Green lie”
La giornalista Kathrin Hartmann,già in passato autrice di un libro di critica al consumismo (End of Fairytale) – dove aveva bollato come edonisti i “lifestyle greenies” – ha una risposta: le aziende e i consumatori dichiaravano di produrre e consumare in modo sostenibile, ma in sostanza solo per immagine. Insieme al film maker austriaco Werner Boote, ha realizzato “The Green lie”, un documentario sullo stile di vita occidentale in tema di ambiente e presa di coscienza sul cambiamento climatico. Il risultato è la messa in scena di una grande contraddizione riconducibile all’individualismo emerso dopo la fine della società Novecentesca. Allora le persone erano tutte e ciascuna in qualche modo inquadrate in almeno una organizzazione collettore di valori comuni: religiosa, politica, sindacale, culturale… Ma pure la famiglia aveva un grande impatto sull’individuo nella trasmissione di valori. Queste associazioni hanno perso nel tempo la loro impronta, lasciando l’individuo solo alla ricerca della propria identità nella società contemporanea. Per questo motivo, oggi, in ambito di consumo, ogni scelta serve a supportare una nuova ricerca di valori: si comprano cose che veicolano quelli ritenuti importanti per uno status. Si chiama “contenuto latente” in psicologia!
Stile di vita e identità post-ideologica
Ecco quindi che i brand diventano spesso dei mediatori, promettendo di fare diventare il loro acquirente il miglior consumatore. Il fenomeno, estremizzato nel settore della moda, era stato tracciato anche da Naomi Klein, 20 anni fa, nei suoi studi sul marchio e pubblicità diventati poi un best seller quale No Logo. Le traiettorie del marketing sul marchio e del consumo si intrecciano proprio negli anni Novanta, la prima epoca post-ideologica, quando emerge che non è più importante in quale società gli individui vogliono vivere ma in quale stile di vita si trovano appagati.
Così il surriscaldamento climatico, l’inquinamento, i rifiuti plastici e la deforestazione non sono indifferenti alle persone, ma riguardano tutti e quindi nessuno in particolare. Il lifestyle di ognuno è più importante della condizione in cui si trova il pianeta che ospita tutti quanti. Nonostante migliaia di scienziati di ogni paese del mondo abbiano allarmato i cittadini sulle catastrofiche conseguenze a cui la Terra sta andando incontro a causa dell’iper-sfruttamento delle risorse, questi continuano a consumare come hanno sempre fatto. Chiedono consapevolezza al produttore – che in alcuni casi risponde in maniera genuina (eliminazione di imballaggio inutile, uso di materiali riciclati, ecc…) e in altri fa semplicemente greenwashing – ma passano la responsabilità di quello che è “giusto o sbagliato” alle imprese.
Nessun shopping “corretto” in un sistema sbagliato
Sostanzialmente le aziende fanno quello che è ecologicamente e socialmente richiesto ma sempre per soddisfare un’esigenza di mercato. Tornando a The Green lie, la conclusione è quindi che non c’è uno shopping “corretto” in un sistema sbagliato. Certo, molte scelte di produzioni più sostenibili sono state fatte per venire incontro alla responsabilità sociale che alcune imprese hanno sentito di dover compiere. In comparto della moda, il secondo più inquinante dopo la raffinazione del petrolio, ultimamente ha deciso di ripensare il suo business in quest’ottica. Ma a ben guardare potremmo ancora trovare la contraddizione di produrre un jeans in Asia per venderlo in America. Insomma, la questione è molto complessa e non si risolverà finché il consumatore non si renderà conto di essere prima di tutto un cittadino. Fino a quel momento la tutela dell’ambiente rimarrà un atto molto arbitrario.