Nell’articolo precedente abbiamo visto come le ferie, in un mondo iperconnesso, non sempre sono sfruttate per staccare davvero la spina dal lavoro. Quindi, anziché un momento prezioso per ricaricare le energie, rilassarsi e dedicarsi ad altro, si trasformano in un periodo meno piacevole di quanto dovrebbero essere.
La filosofa e scrittrice Maura Gancitano ha definito il neologismo “vacansia” come il termine che indica bene “quella sensazione di inquietudine che accompagna sempre più persone nei momenti di ferie e pausa”.
La “vacansia” sarebbe l’alter ego della vacanza, un paradosso della modernità per cui – nonostante ci si trovi in una condizione fisica apparentemente di riposo – la mente continua a lavorare per molti giorni ancora e a preoccuparsi dei task da svolgere, rendendo difficile l’abitudine a un ritmo più rilassato.
La “vacansia” è un prodotto della iper-connessione, può colpire anche chi è abituato a operare in smart working, perché è un tratto caratterizzante la società digitale, quella dove il confine tra lavoro e riposo si è fatto sempre più sottile. Così, persone che dovrebbero trovarsi in vacanza non hanno smesso di lavorare in realtà: le notifiche sullo smartphone, la mail del collega a cui non si riesce a non rispondere e soprattutto l’onnipresente pressione sociale ad avere il controllo sulla propria vita. Un po’ tutto questo rende difficile essere lucidi su quelli che sono i nostri doveri professionali. E ci dimentichiamo che la disconnessione dal lavoro è un diritto!
Se la disconnessione è individuale diventa però difficile sfuggire alla pressione sociale. Potremmo tirare in ballo anche una riflessione del giornalista Alessandro Sahebi, secondo cui chi fa lavori intellettuali nella società neoliberale subisce una sorta di pressione per la coerenza. Fatto sta che qui siamo, e dobbiamo rompere il circolo vizioso dell’iper-produttivismo. Ma non certo da soli, necessitiamo di una risposta collettiva per una cultura del riposo.
Tornando alla Gancitano, liberarsi dalla “vacansia” è dunque una sfida sociale: “dobbiamo ripensare il nostro rapporto con il lavoro e con il tempo libero, promuovendo una cultura che valorizzi realmente il tempo vuoto”.
La conclusione è che la società nel suo insieme deve riconoscere il valore del riposo e rispettare questo diritto. E questo significa cambiare le nostre aspettative collettive: la disponibilità costante – nostra, dei nostri colleghi e delle altre persone in generale – non deve essere vista come un segno di dedizione (o coerenza professionale), ma come un rischio per la salute mentale (un “pericolo” la parola esatta scelta dalla filosofa siciliana).
Quindi, solo attraverso una trasformazione culturale è possibile davvero riappropriarci del significato della vacanza, superare il sentimento di “vacansia” e goderci appieno le meritate ferie estive!