La trappola del “decidiamo insieme”

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Esiste un confine netto tra decisioni “top-down” e decisioni inclusive? Ci piacerebbe credere che sia così, ma l’episodio seguente descrive una situazione tipica che dimostra quanto sia arduo rispondere a questa domanda…

Una decisione importante 

Ore 10:00 del mattino, nella sontuosa sala riunioni della A.C.M.E, un tavolo imponente ospita un dilemma che richiede di essere approfondito: intraprendere l’avventura in un mercato internazionale sconosciuto (la Cina) o restare nell’ambito locale, che l’azienda conosce così bene?

La questione è tutt’altro che banale. Non è ancora chiaro quanto il richiamo internazionale trovi risposta nell’offerta di A.C.M.E.

La figura di Claudio, il carismatico CEO, emerge al centro del tavolo. Col suo sguardo vispo, è fiducioso sulla strada da percorrere, ma non vuole influenzare il pensiero dei colleghi. Comprende che una decisione così rilevante necessita di un consenso collettivo ben ponderato. Propone un giro di tavolo, un’opportunità per raccogliere le preziose opinioni degli altri per gettare le basi di questa nuova possibile avventura.

Uno dopo l’altro, i membri del team espongono le loro visioni, illuminando le sfaccettature positive e negative delle opzioni disponibili. Nessuno tuttavia si schiera apertamente in una direzione. Claudio anima il discorso, ma sa già perfettamente cosa vuole ed è molto meno indeciso di quanto voglia far sembrare. Gli altri nove membri del team lo conoscono a fondo: lavorano con lui da anni, una squadra affiatata capace di decifrare le sue intenzioni e svelare la direzione verso cui tende.

L’atmosfera danza  al ritmo del pensiero di Claudio e inevitabilmente le opinioni convergono verso la direzione che lui sta implicitamente imprimendo. Senza acclamazioni, né applausi fragorosi, la decisione si manifesta con un consenso silenzioso, il dissenso si immola sull’altare dell’armonia di gruppo: l’avventura si farà.

Ci vorranno mesi perché i timori che gli altri partecipanti hanno sottaciuto, si concretizzino. Gli eventi si svilupperanno in modi imprevisti, scavando come una goccia, nell’errore nascosto che tutti avevano temuto ma cui nessuno ha dato voce. E così, la decisione prenderà strade inaspettate, rivelando i suoi limiti.

Era inevitabile?

La risposta sfugge, immersa nell’incertezza. Forse un’analisi più approfondita avrebbe potuto svelare il momento sbagliato o una mancanza di dati oggettivi. Magari, avviare i focus group internazionali avrebbe potuto rivelare l’appeal reale dei loro prodotti all’estero. 

Non è sul fiasco della decisione che dobbiamo porre la nostra attenzione – prendere sempre decisioni perfette è impossibile. È la natura stessa della scelta, la sua sostanziale falsità, la recita di un vecchio copione, a richiedere riflessione. 

I fattori disabilitanti

 L’assenza di “psychological safety”, la paura di opporsi apertamente a Claudio, e la mancanza di un metodo decisionale collettivo si sono combinate in una tragica sinfonia. L’azienda immola il proprio bene sull’altare del quieto vivere tra le persone; il pensiero individuale, cedendo al consenso di gruppo e all’autorità, perde ogni potere di contributo. La divergenza si sottomette all’armonia e l’azienda non riesce a esplorare tutte le valide alternative alla decisione binaria.

La colpa non ricade su Claudio, ma sul sistema implicito in cui opera. La sua leadership lo ritrae come il cardine insostituibile della decisione: suoi saranno colpe e meriti. Ma sarà ancora una volta l’intero sistema a fallire,  non l’individuo, e se non spostiamo la riflessione a quel livello continueremo a reiterare le stesse modalità operative e gli stessi clichè.

Proviamo allora a  spostare il focus dal “cosa” al “come”: come si sarebbe  potuta evitare questa trappola? 

In un universo parallelo…. 

Ore 10:00 del mattino, Claudio, il CEO di A.C.M.E., ha convocato una riunione coi suoi primi riporti. L’obiettivo è sottoporre a tutti la sua proposta di espandere le attività aziendali sul mercato cinese. Il gruppo è abituato a questo tipo di coinvolgimento, la decisione sarà faclitata da un consulente esperto, Marco, voluto da Claudio stesso, e si svolgerà seguendo un processo che A.C.M.E. ha già rodato su precendenti decisioni strategiche. Claudio, facilitato da Marco, ha lo spazio per esporre la sua proposta e le motivazioni che a suo avviso la rendono necessaria. Gli altri partecipanti a turno hanno uno spazio dedicato e protetto dalle interferenze dei colleghi (Claudio incluso) per rivolgere domande d’approfondimento e fornire le proprie opinioni in piena libertà.

IL gioco si fa duro divertente

Il round di opinioni fa emergere dei warning, ma quando  la parola torna a Claudio, nella fase di revisione della proposta, lui li minimizza; apporta una modifica di puro maquillage, per mostrare che non è insensibile alle preoccupazioni del suo team, ma è fermamente convinto che si tratti della strada giusta da seguire. Fortunatamente il processo decisionale prevede un safety check strutturato: la decisione deve essere “safe enough to try” (“abbastanza sicura da poter essere provata”): ognuno dei partecipanti ha diritto, per il ruolo organizzativo che rappresenta, di presentare e motivare un’obiezione. Ne emergono un paio, ma l’obiezione di Franco, il CFO, è la più tosta. Si incentra sulla sostenibilità dell’operazione e sui costi affondati che essa comporta, a fronte di dati poco chiari sulle probabilità di successo dell’iniziativa.

Marco facilita uno scambio tra Claudio e Franco che, a suon di controesempi, come previsto dal processo, provano ad aggiustare la proposta iniziale per aiutarsi reciprocamente a superare l’impasse. Rendendosi conto di non aver valutato alcuni aspetti critici, Claudio decide di ritirare la sua proposta. Non si è riusciti a superare la condizione di “SAFE ENOUGH TO TRY e portarla avanti comunque danneggerebbe l’intera organizzazione. Luca, il CMO, si assume proattivamente  la responsabilità di portare al tavolo nuovi dati di mercato che, se positivi, annulleranno l’obiezione di Franco, rendendo possibile una revisione di questa decisione. 

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