Lavoro agile: come può migliorarci la vita? Una cosa è certa: indietro non si torna

Indice dei contenuti

Articolo di Ilaria Solari per Elle.

Per le donne lavorare in remoto, in quest’emergenza, è stato stremante. Ma lo smart working è un’altra cosa e per realizzarlo occorre pensare in grande

Una relazione da consegnare, la lavatrice da svuotare, i compiti del figlio da correggere e la figlia da sentire su Foscolo e i Sepolcri. La nonna che chiama perché non riesce ad accedere al fascicolo sanitario, la cena ancora da mettere assieme mentre una call sta per cominciare. Ci risiamo?

Con la minaccia sempre più spesso ventilata di un ritorno al lockdown, i teenager già blindati in casa con la didattica a distanza e gli uffici che ripristinano prudenzialmente le postazioni da remoto, molte lavoratrici rischiano di scivolare di nuovo nel girone infernale della scorsa primavera.

Quando, secondo una ricerca, condotta alla fine del confinamento da Valore D, associazione che promuove l’equilibrio di genere e la cultura inclusiva nelle aziende, una donna su tre dichiarava di lavorare da casa molto più di prima, faticando per mantenere un equilibrio tra professione e vita domestica.

Il disagio, registrato da tanti sondaggi, ha alimentato un acceso dibattito e gettato qualche ombra sullo smart working, uno strumento «nato storicamente proprio da una richiesta delle donne», ricorda Chiara Bisconti, ex assessora al Comune di Milano, board president di Milanosport, «che reclamavano flessibilità di orario e possibilità di lavorare in luoghi diversi per conciliare l’impegno professionale con le incombenze quotidiane».

Parola chiave: libertà 

Pioniera del lavoro agile, Bisconti vuole sgombrare il campo da un equivoco: «l’esperienza che la maggior parte di noi ha vissuto durante il lockdown è stata una costrizione feroce a vivere e lavorare nel medesimo luogo per mesi, tenendo insieme il carico professionale e di cura, con uno squilibrio vistoso rispetto agli uomini seduti al nostro fianco: un fardello insostenibile. Per questo ricordo con forza che quello non è lavoro agile. È telelavoro, la sua negazione, una formula che si rivelava fallimentare già una ventina di anni fa.

Il lavoro agile, lo dice la legge 81 del 2017 che lo regola, è al contrario uno strumento di libertà: promuove flessibiltà, possibilità di autorganizzarsi negli spazi e nei tempi e di lavorare su progetti piuttosto che su rigidi schemi orari». Stiamo insomma sperimentando, chissà per quanto ancora, l’applicazione parziale, semplificata e forzata di una legge «che è in realtà molto dettagliata e nella sua formula genuina prevede contratti e garanzie, prima fra tutte il consenso dei lavoratori», spiega Renata Semenza, che insegna Sociologia dei processi economici e del lavoro alla Statale di Milano.

Ma questa sperimentazione, per quanto straordinaria, è stata l’occasione per imprimere una spinta alla trasformazione. «Lascerà il segno sul modo di concepire e organizzare il lavoro nel futuro», continua Semenza, «secondo alcune stime, in Italia dovrebbe portare a un incremento del lavoro in remoto dal 3-4 per cento al 30-40, almeno nelle grandi città». Ad aprile, in pieno lockdown, erano quasi 8.000 i dipendenti del Comune di Milano che lavoravano a distanza. Una formula che ha permesso alla macchina municipale di continuare a garantire i servizi.

«Ma già prima della pandemia avevamo 300 persone in smart working, in prevalenza donne», racconta Cristina Tajani, assessore alle Politiche del lavoro, Attività produttive, Commercio e Risorse umane. «Guardando proprio alla questione di genere, le donne sono state le prime a segnalarci la maggior difficoltà di conciliare attività professionale e incombenze domestiche, attraverso un questionario diffuso tra tutti i dipendenti.

Nononostante questi e altri disagi legati alla situazione eccezionale di confinamento, la ricerca ha registrato però una valutazione positiva di questa esperienza, che ha arricchito il bagaglio professionale dei dipendenti in termini di maggiore familiarità con gli strumenti tecnologici, ma anche di capacità relazionali e adattamento.

In un’ottica di sviluppo, quando torneremo alla normalità, lo smart working continuerà a rappresentare la miglior possibilità di conciliare tempi di vita e di lavoro». Tanto che l’assessora progetta, accanto alla flessibilità degli orari in entrata e uscita, «scrivanie di prossimità per svolgerlo anche fuori da casa e una banca dello smart working perché chi ne abbia bisogno possa fruire delle giornate da remoto non consumate dai colleghi».

Indietro non si torna 

A dispetto del momento grave, insomma, il cambiamento è un treno in corsa. E questo tempo sospeso che paradossalmente lo accelera è diventato un osservatorio prezioso per anticipare ed eventualmente arginare le trappole che il lavoro in remoto può tendere alle lavoratrici. «Se per esempio diventa uno strumento molto richiesto e concesso alle donne», suggerisce Renata Semenza, «rischia di diventare un ghetto, quello che la letteratura chiama privilegio handicappante: più una sta a casa, più resta esclusa dai circuiti dell’informazione e della formazione, in un momento in cui molte donne stanno già uscendo dal mondo del lavoro».

Esistono antidoti? Se Chiara Bisconti suggerisce che «si comincia convincendo i compagni a farsi carico della cura della casa e dei figli e a sperimentare per primi lo smart working, che non è uno strumento di genere: è per tutti quelli che hanno a cuore la qualità della vita, porta benefici all’economia e all’ambiente», la ministra delle Pari opportunità Elena Bonetti progetta forme di premialità per i padri che lo adottano

Un puzzle da comporre

In altri termini, per trovare gli antidoti bisogna allargare lo sguardo. «È un puzzle», ammette Serena Righini, urbanista, ricercatrice al Politecnico e assessora al Comune di Gorgonzola con delega al territorio, all’ambiente e ai progetti speciali, tra le organizzatrici del recente webinar della società Workitect, Smart working & mobility.

«Un pezzo compete alla normativa nazionale, e ha soprattutto a che fare col welfare, una parte alle città, che avrebbero a disposizione strumenti ancora poco utilizzati come il piano degli orari: possono cioè convocare tavoli di confronto tra soggetti pubblici e privati e concordare scelte che rendano più semplice la vita dei cittadini.

Un’ultima parte spetta ai datori di lavoro, che devono garantire, attraverso una programmazione aziendale che coinvolga le parti, adeguati margini di flessibilità al lavoro agile e un buon equilibrio tra i generi».

Ci invita a «adottare una prospettiva più ampia» anche la professoressa Semenza. «Un grande dibattito sta investendo in queste ore l’Europa, in Italia le donne riunite nel movimento del “Giusto mezzo” stanno chiedendo al governo di equilibrare dal punto di vista del genere le risorse che riceveremo dall’Europa, destinandone almeno metà a sostegno del lavoro femminile: vuol dire investire nei servizi, nelle infrastrutture che alleggeriscano il peso del lavoro non retribuitodelle donne, lo stesso che affligge le lavoratrici in smart working. In Italia si aggira intorno al 55 per cento.

Investire nei settori produttivi a dominanza femminile come l’istruzione, i servizi di cura e la sanità può aiutare tutte, che si lavori in ufficio o da remoto. Si sta giocando una partita importantissima, non perdiamo questo treno».

Chiara Bisconti, abituata a progettare passando dal “macro” al “micro”, è reduce da un progetto di lavoro agile sull’isola di Salina: «Un luogo di grande suggestione e ispirazione. Nell’albergo non eravamo sole, mi ha colpito una famiglia tedesca: i genitori lavoravano e le figlie studiavano da remoto a bordo piscina.

Per le donne l’idea di potersi dedicare a un’esperienza di lavoro con una fluidità e un’intensità che si riverberino nelle relazioni e sulla qualità di ciò che produci è quasi un lusso, ma è un’esperienza che il lavoro agile rende possibile, soprattutto se la città o le comunità che hai intorno garantiscono spazi e connessione adeguata. Il fenomeno del lavoro da remoto è mondiale, non torneremo più indietro.

Se in questo momento fossi la Prima ministra italiana lancerei questa strategia di rilancio del Paese: giocherei la mia partita investendo sulla digitalizzazione del territorio, posizionando l’Italia come il Paese più bello del mondo dove alternare “agilmente” lavoro e relax».

Categorie
Scarica le nostre guide gratuite
Desk Sharing
Desk sharing significa letteralmente condivisione
della scrivania
.
Si tratta di un’organizzazione delle postazioni dell’ufficio non più basata sull’assegnazione delle singole scrivanie, bensì sulla loro condivisione.
Clean Desk Policy
Si tratta di una direttiva promossa dall’azienda che regola il modo in cui le persone devono lasciare la postazione di lavoro una volta concluse le attività e come devono gestire i documenti, i file e, in generale, i dati sensibili.