A Parigi, i recenti fatti di guerriglia urbana e le ripetute “sbavature” negli interventi della polizia, hanno evidenziato scenari poco edificanti in Francia sull’esclusione e il razzismo. Ma ormai in tutta Europa, da anni, le tensioni sociali si accompagnano a una riflessione sull’alienazione delle periferie. Eppure, qui non ci sarebbero solo brutture architettoniche e spazi anonimi, lontani dai centri che invece rappresentano il fulcro vitale – dal direzionale al ludico – della città. Spesso proprio nei “vuoti urbani” della periferia nascono movimenti che alla capacità d’aggregazione abbinano produzione di cultura, magari “off”, quella fuori dai circuiti classici.
E proprio realtà come Parigi, Londra, Milano ma anche Napoli e Firenze si ergono nel panorama continentale come esempio di città d’arte dove ottengono riconoscimento pure gli artisti non “istituzionali”, quelli che non vedono le loro opere finire nei musei, ma che sono fondamentali a concepire l’arte come esperienza sociale oltre che estetica. Sociale ma anche social diremmo, la loro produzione “urbana” è infatti allo stesso tempo sotto gli occhi di tutti e condivisa su Instagram, non solo per gli street artists di fama internazionale ma anche per i più anonimi locali.
Arte urbana
In un contesto dove nelle grandi città c’è sempre stata la difficoltà di trovare stabili a buon prezzo, spesso tra penuria d’atelier ad affitto ragionevole e l’abbondanza di locali vuoti in centro e in periferia, la risposta di decine d’artisti – prima a New York e poi in Europa a partire dagli anni’80 – era stata una sola: l’occupazione. Oggi molti di questi spazi sociali da molti anni resistono all’emarginazione e agli sgomberi, con lo scopo di permettere agli artisti di alloggiare e di creare in condizioni accettabili, il che è diventato quasi impossibile nelle capitali europee a causa delle speculazioni immobiliari.
E così, nei quartieri ex-operai – da San Lorenzo a Roma al Kreuzberg a Berlino – vecchie fabbriche occupate dove si può fare teatro, fotografia e artigianato, diventano centri sociali di riferimento per tutti i ragazzi. Dagli studenti delle Belle Arti che sognavano un luogo di lavoro alla portata agli artisti impegnati nell’aprire dei luoghi poetici in uno spazio urbano disumanizzato, da stranieri creativi alla ricerca di laboratori accessibili a giovani desiderosi di riscattarsi attraverso l’arte, ovunque si è affermata la ricerca di modelli artistici collettivi.
L’esempio della Francia: l’arte urbana da illegale a istituzionale
Parigi in particolare è stato il centro dei molti luoghi alternativi ed illeciti creati in immobili vuoti, squat artistici installati in vecchie ambasciate ormai abbandonate di stati falliti come lo Yemen o la Somalia ad esempio.
Su tutti, però, c’è l’ex scuola professionale in Avenue du President Wilson conosciuta come “Le Palais de Tokio/Site de création contemporaine”. Questo luogo, all’interno di un enorme stabile costruito per l’Expo Universale del 1937 e già dal 1961 ospitante il Museo d’Arte Moderna, nella sua ala occidentale è aperto da 20 anni a mostre e manifestazioni per celebrare l’arte alternativa. Dopo che a lungo centinaia d’artisti in condizioni di precarietà chiedevano aiuto al Ministero della Cultura, finirono per occupare Le Palais de Tokio per attirare l’attenzione sulla loro situazione.
Finalmente nel 2002 le istituzioni risposero favorevolmente e addirittura l’allora premier Lionel Jospin e l’ex ministro della cultura Catherine Tasca visitarono il centro sdoganandolo definitivamente dall’illegalità dell’occupazione di un immobile statale.
Riappropriazione degli spazi urbani e ripensamento delle periferie
Come sostiene Jean Starck – pittore francese classe 1948 e per Le Monde il leader storico della lotta contro l’arte ufficiale dei canoni accademici – la riappropriazione degli spazi urbana è un vero movimento artistico postmoderno organizzato per offrire un’arte semplice accessibile a tutti.
La logica che rende interessante l’arte urbana è l’impegno e la partecipazione. Le opere vogliono veicolare tematiche sociali, non ultima la sensibilizzazione sul cambiamento climatico, in contrapposizione alla “creazione culturale di stampo borghese”. Ma aldilà della missione d’innovazione culturale, quello che bisogna sottolineare è la prospettiva di poter pensare ad una riqualificazione delle periferie attraverso il desiderio di libera espressione artistica di chi quegli spazi li vive.
Ovviamente questo non basta: occorrono politiche che con logica di partecipazione ripensino il futuro delle periferie, da anonimi quartieri dormitorio a nuovi centri vitali. Si tratta di pianificare una mobilità pubblica efficiente, il decentramento di luoghi di aggregazione (anziché privilegiarli per l’insediamento di nuovi centri commerciali) e una politica abitativa che risponda a reali esigenze, anziché dare luogo alle speculazioni dei soliti immobiliaristi.