Pasolini e il lavoro

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Nella ricorrenza del centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini, ho pensato fosse curioso riflettere sul tema del “lavoro” nella visione del grande intellettuale friulano.

Pasolini – poeta, giornalista, scrittore e regista – non ha bisogno di presentazioni. È stato il più fine e attento osservatore dell’Italia del Novecento, apprezzatissimo anche all’estero. Proprio in questi giorni e fino al 12 marzo a Los Angeles, presso il Museo dell’Academy di Hollywood, gli è dedicata una retrospettiva con la proiezione di tutti i suoi film.

Il suo esordio cinematografico, nel 1961, è dedicato appunto alla questione del “lavoro”. “Accattone” è il soprannome di Vittorio, il personaggio centrale del film, un disgraziato di borgata romana il cui stile di vita è improntato al sopravvivere alla giornata. Vi riesce facendosi mantenere da Maddalena, una prostituta sottratta alle grinfie del suo pappone finito in carcere.

Il regista, in chiave marxista, affronta piuttosto la questione del “non lavoro” nella moderna società capitalistica, dato che Vittorio dichiara che vuole rifiutare di farsi bere il sangue dal vampiro-padrone. Ovviamente è poetico e drammatico al contempo.

L’accattone è quello che Karl Marx avrebbe definito “sottoproletario urbano”, quindi un escluso a priori dalla divisione capitalistica del lavoro. Tuttavia, si tratta anche di una volontaria non partecipazione alla produzione, dal momento che il protagonista è dichiaratamente un non sottomesso al lavoro

Pasolini era comunista ma anche cattolico e questo emerge spesso nella sua visione del mondo. Il suo è un cattolicesimo anticapitalista che ne segna le opere e caratterizza l’idea di religione del poeta. Non è certo una novità di Pasolini, in tutto il secolo scorso c’è una certa cultura cattolica e sociale che – in chiave anticapitalista – sfocia nell’associazionismo operaio, nel corporativismo e nel sindacalismo. 

In un altro suo film, poco noto perché non distribuito, “Gli esclusi”, c’è una scena in cui un gruppo di persone guardano alla rete una partitella di calcio in una borgata romana. Nuovamente una metafora del rifiuto di partecipare alla produzione.

Il problema posto da Pasolini è ancora di grande importanza, interrogandosi sulla sorte di coloro che nella società capitalistica rifiutino di lavorare proprio come il Vittorio di “Accattone”.

Nella società capitalista chi non ha un’occupazione, non solo è un “accattone”, ma rischia di morire di fame come Vittorio. Perché il “non lavoro” non è tollerato, lo vediamo ancora oggi nella linea di principio sulla quale Confindustria e certi politici attaccano il Reddito di Cittadinanza.

L’immagine (indegna) che è stata proposta è quella dei giovani che preferiscono stare sul divano anziché essere occupati.

Questo è dovuto al fatto che il produttivismo – e oggi il consumismo – da sempre teme la portata eversiva del rifiuto del lavoro.

Basti pensare che nell’Inghilterra dell’Ottocento i disoccupati erano passibili di finire in carcere, marcando così come forma di devianza il non contributo alla produzione, secondo uno schema che portava all’esclusione sociale.

Dalla seconda metà degli anni Cinquanta in Italia fece la sua comparsa la “società dei consumi”, la cui critica impegnò Pasolini fino agli ultimi anni della sua vita, tanto da paragonarla ad una nuova forma di fascismo.

Il primo articolo della nostra Costituzione ha un assunto solenne: “l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”. Ma quale tipo di lavoro e quanto ancora incide sulla formazione del PIL oggi?

Quello inteso come occupazione salariale, ha perso progressivamente di valore rispetto al capitale dalla seconda metà del Novecento, cioè da quando Pasolini girava il film “Accattone”.

Dal 2000, poi, il confronto è spietato, in Italia come in ogni paese ad economia avanzata è sempre più precario e meno concorrente alla ricchezza nazionale.

Nell’epoca della speculazione finanziaria del capitale, “il lavoro” ha ormai un significato diverso per chi è nato a partire dagli anni ’80 rispetto alla generazione dei padri costituenti.

Eppure lo stigma per i non occupati rimane come se fosse una colpa.

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Francesco Sani
Giornalista Pubblicista laureato in Sociologia all'Università di Firenze. È Direttore della rivista Firenze Urban Lifestyle e collabora con altri magazine e blog su temi attinenti Cultura, Ambiente e Società. Scrive e ha scritto per L'Espresso, Il Fatto Quotidiano, Smart Working Magazine e Artribune.
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Giornalista Pubblicista laureato in Sociologia all'Università di Firenze. È Direttore della rivista Firenze Urban Lifestyle e collabora con altri magazine e blog su temi attinenti Cultura, Ambiente e Società. Scrive e ha scritto per L'Espresso, Il Fatto Quotidiano, Smart Working Magazine e Artribune.
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