“Qualcosa è cambiato”: questa frase, oltre ad essere il titolo di uno dei miei film preferiti, è perfettamente rappresentativa dell’attuale mondo del lavoro.
Me ne accorgo perché ad essere cambiato è stato anche il mio “mestiere” che, fino a qualche anno fa, si caratterizzava per essere rappresentato solo e soprattutto come “quello che va in Tribunale” e che, invece, oggi mi vede sempre più spesso coinvolto in analisi, studi e implementazioni di nuovi modelli organizzativi volti a garantire la fidelizzazione ed il benessere dei dipendenti in un’ottica di maggiore produttività aziendale.
Ho avuto conferma di questo anche stasera, dopo una lunghissima riunione in cui siamo riusciti a “chiudere” un accordo sul welfare aziendale piuttosto innovativo.
In questi frangenti in cui vi è un confronto anche con le rappresentanze sindacali, capisco quanto gli schemi di un passato, neanche troppo remoto, siano mutati e di come sia ormai necessario affrontare le tematiche (e le problematiche) con lenti nuove e, probabilmente, meno spesse.
Anche il Legislatore, che notoriamente non è uno spettatore troppo reattivo, sembra essersene accorto e i provvedimenti in materia di lavoro provano spesso, magari in modo troppo timido, a supportare un mondo del lavoro che non sembra più vedere in un’ottica strettamente marxista il “conflitto” tra capitale e forza-lavoro, ma che prende atto di un mutamento degli assetti economici e sociali.
Vi è quindi un’idea ormai diffusa, ma non so quanto consapevole, anche da parte di alcune organizzazioni sindacali che deve essere ormai superato il principio di una contrapposizione tra capitale e lavoro, con una partecipazione sempre più estesa dei lavoratori alle scelte aziendali.
Pensando a tutto questo, mi torna alla mente una proposta di rinnovo del “modo” di immaginare il mondo del lavoro, che mi ha sempre molto incuriosito per la sua utopia ed eccentricità: il piano Meidner.
Non è banale ricordare che tale piano – rimasto sostanzialmente inattuato – è stato elaborato in Svezia durante i primi anni ’70 (e, quindi, subito dopo il caldissimo ’68) e che tale proposta proveniva proprio dal mondo sindacale e da un professore scappato dalla Germania nazista.
Il piano si fonda su un principio tanto semplice quanto rivoluzionario: sostanzialmente vi era l’idea di legare fortemente le politiche salariali dei dipendenti ai risultati dell’impresa, attraverso la definizione di fondi di investimento dei lavoratori.
Era stato immaginato di emettere delle vere e proprie “azioni” per i lavoratori dipendenti, azioni che dovevano essere poi trasferite nei detti fondi di investimento.
Il punto “critico” di questo piano era la natura sostanzialmente espropriativa dei profitti, in quanto avrebbe dovuto essere una legge statale (ai tempi in Svezia governavano i socialdemocratici) a dovere “imporre” tale distrazione del denaro, non determinando sostanzialmente alcun vero rischio per i lavoratori.
In realtà quello che sta accadendo nel mondo del lavoro di oggi non è così diverso. Basti pensare che con la D. lgs. n. 252/2005 è stata legislativamente prevista la possibilità, fortemente caldeggiata da un non sempre chiaro procedimento di silenzio-assenso, di devoluzione del TFR alla previdenza complementare, attraverso, quindi, una sostanziale distrazione di somme di denaro a fondi di “investimento”.
Se così è, ritengo che potrebbe non essere così bizzarro pensare di poter devolvere la quota parte del TFR anche per acquistare in modo agevolato “azioni” della propria azienda o del proprio settore merceologico, facendo decidere il dipendente – in un’ottica più moderna rispetto al piano Meidner – se volere partecipare al rischio di impresa, godendo degli auspicati utili.
D’altronde, un altro argomento che sempre più spesso occupa gli angoli della mia scrivania, sono i piani di azionariato dei dipendenti che, a mio avviso, dovrebbero essere diffusi non solo nelle categorie più alte dei lavoratori, ma anche in quelle intermedie e basse, al fine di una loro incentivazione e fidelizzazione, offrendo una disciplina legislativa agevolativa e di sostegno.
In altre parole, oggi, il conflitto non risulta essere tanto “all’interno” dell’azienda tra parti datoriali e dipendenti, ma più probabilmente all’ “esterno” della stessa relativamente ad una concorrenza spietata da parte di Paesi emergenti che non si preoccupano troppo di adottare politiche di dumping economico e sociale.
Una soluzione che potrebbe permettere di salvaguardare il nostro sistema democratico e liberale dalla concorrenza di Paesi in cui anche l’attività di impresa è caratterizzata dal mancato rispetto di diritti che a noi sembrano essere scontati, potrebbe passare proprio da una più ampia partecipazione dei lavoratori alla governance, anche attraverso l’adozione di piani di azionariato innovativi, agevolati e mirati.
Come confermato da alcune esperienze avvenute oltralpe, bisogna “scommettere” sulla cooperazione tra datori, sindacati e lavoratori per portare ad un più generale benessere del mondo della impresa per non essere soccombenti rispetto a modelli economici stranieri di matrice assai diversa dalla nostra.