“Scrivi Smart Working leggi Happy Working”: ma è sempre così?

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Se penso allo Smart Working direi che non esiste metafora più azzeccata di una Ferrari. Perchè? Beh, perchè se possiedi un’auto del genere e non sei in grado ancora di guidarla, potresti improvvisare, provando a premere il piede sull’acceleratore rischiando di andare troppo veloce e, addirittura, di schiantarti, oppure puoi imparare prima come si fa e  sperimentare una guida più consapevole, padroneggiando lo strumento e sfruttando a pieno le sue potenzialità. 

Una volta che un modello di tale rilevanza, come lo Smart Working, entra a far parte della quotidianità, è utile essere consapevoli non solo dei benefici ma anche dei suoi pericoli, in modo da sfruttare a pieno tutte le sue potenzialità.

Perché lo vogliono tutti

Gli ultimi dati pre-covid, offerti dall’Osservatorio dello Smart Working del Politecnico di Milano, mostrano come la principale motivazione a spingere verso la sua implementazione sia il miglioramento della conciliazione vita-lavoro; seguito da quello dell’engagement, della capacità di attrarre talenti, del benessere organizzativo e, infine, della produttività e qualità del lavoro.  Assodate queste ragioni, mi sono chiesta se, una volta che questo nuovo modo di lavorare abbia preso piede nella nostra quotidianità, fossero effettivamente confermate le aspettative iniziali. In particolare, è vero che la conciliazione vita-lavoro ne trae sempre beneficio? È vero che grazie allo Smart Working il nostro benessere migliora e potremmo diventare tutti “Happy Worker”?

È un tema troppo complesso per poter rispondere in modo netto: sì o no. Quello che mi sento dire, anche in base al mio piccolo osservatorio da consulente, è : “dipende!” Dipende sia da come è concepito questo modello, sia da cosa si intende per Happy Working.

Partiamo dal primo aspetto. Dando per assodato che lo Smart Working, definito ormai come un vero e proprio cambio di paradigma, rappresenta sicuramente un nuova configurazione del lavoro che può rispondere in modo soddisfacente alle esigenze di innovazione del mondo attuale; non si può altrettanto dire lo stesso della sua facilità di utilizzo sul campo. Vien da sé che cambiare il proprio approccio al lavoro non può essere un passaggio immediato né può essere improvvisato o lasciato al caso.

Quando da benefit rischia di diventare un malefit

I motivi per cui il lavoro agile è considerato un benefit per i lavoratori sono moltissimi. Lo smart worker, idealmente, decidendo in autonomia orari, modalità e luoghi di lavoro, risparmia tempo, si ritrova a stare di più in famiglia e nel suo quartiere, si dedica di più a sé e alla sua salute. Basta anche solo considerare la riduzione degli spostamenti quotidiani che rappresenta un dato che si riflette non solo sulla qualità delle prestazioni lavorative ma anche e soprattutto sul benessere delle persone, in quanto viene sempre considerato come una delle prime fonti di stress. 

Eppure, non è sempre così. Lo Smart Working, se preso alla leggera, può comportare più svantaggi che vantaggi. È stata proprio una lavoratrice che ho intervistato ad averlo identificato come “malefit” per la persona, piuttosto che benefit. Qui mi sembra doveroso aprire una piccola parentesi relativa al periodo che stiamo vivendo. A differenza del pensiero comune, quando parlo di Smart Working, non mi riferisco al periodo attuale che ci ha visti costretti a lavorare da casa, durante le canoniche 8 ore (se non di più!), ma ad un modello innovativo che prevede una flessibilità di spazi e orari, comportando quindi un’alternanza tra la presenza in sede e fuori sede. 

Ridurre quindi lo Smart Working al mero lavoro da casa rischia di produrre percezioni negative errate e far emergere verso questo non poche resistenze

Spesso, ad esempio, si evince la difficoltà di negoziare attività domestiche e lavorative quando entrambe hanno luogo nella stessa ubicazione e potenzialmente avvengono durante gli stessi orari. Tuttavia, anche se la pandemia è stata di intralcio, lo Smart Working si sta sempre più orientando verso luoghi di coworking, con l’obiettivo di creare le migliori condizioni che permettano ai dipendenti di lavorare in modo efficiente ed efficace, anche fuori sede. 

Durante le giornate di lavoro da remoto svolte in casa, la tendenza spesso è quella di “extra-lavorare”. Avere sempre il pc acceso e a portata di mano permette di avere accesso alle richieste esterne in tutti i momenti della giornata, a cui è difficile non rispondere, pena la sensazione di essere in ritardo nel flusso informativo del lavoro. 

La casa, quindi, luogo per eccellenza di “non lavoro”, ti spinge a non avere più ritmi, a fare fatica nel distinguere il giorno dalla notte, a non uscire più, ne avere tantomeno più cura di te stesso e della tua vita, al di fuori del lavoro. Pur non essendo obbligatorio, credo che l’equilibrio tra l’ufficio e la casa sia, dunque, un luogo terzo, rappresentato appunto dal coworking.

Le modalità di lavoro flessibile, inoltre, presentano spesso il rischio di esclusione dei dipendenti dalle dinamiche aziendali, con conseguente riduzione delle possibilità di carriera, e in più quello di isolamento e di alienazione al contesto aziendale che può avere gravi riscontri sulle prestazioni degli individui, sulla loro motivazione e sul loro senso di attaccamento all’azienda. Lavorare dall’esterno rischia di far perdere il senso di comunità e potrebbe far sentire le persone escluse dalla cultura aziendale. Si dà per scontato, anche a causa del contesto pandemico a cui ormai ci siamo abituati, che una persona che non va in ufficio resti blindata in casa. In realtà, rispetto ad una giornata lavorativa in sede, a fronte di un’operatività maggiore e di un risparmio temporale, è possibile sfruttare quel tempo in più per dare spazio alle proprie relazioni interpersonali e alle proprie attività extra-lavorative.

Per favorire la conoscenza diffusa e migliorare le performance aziendali, le persone all’interno delle imprese devono avere la possibilità di comunicare facilmente, di scambiarsi le proprie idee e le proprie informazioni e di collaborare per garantire l’efficacia e l’efficienza dell’organizzazione. Proprio per queste ragioni è consigliabile alternare il lavoro da remoto, non solo in casa, e il lavoro in sede, così da favorire i rapporti con i colleghi ed evitare il senso di isolamento

Smart Working alias happy working

Lo Smart Working, dunque, diventa vantaggioso nella misura in cui riesce a far trovare al lavoratore un equilibrio tra la sua unicità nel modo di lavorare e il suo essere sociale, contribuendo, in una logica win-win, a rendere azienda e lavoratore maggiormente soddisfatti. 

È un modo di organizzare il lavoro che è nuovo sia per le imprese sia per i lavoratori. Bisogna, quindi,  imparare, tramite la formazione, a utilizzare e gestire al meglio i vantaggi che tutto questo offre, riducendone, invece, i rischi. L’apprendimento è, infatti, un processo graduale che avviene per prove ed errori. Imparare e quindi cambiare implica impegno. Essere un Happy Worker non vuol dire non fare fatica. La fatica, d’altronde, è una componente intrinseca non solo del cambiamento, ma anche del lavoro, e dunque ineliminabile. Lavorare significa imparare a reggere questa fatica, che deve essere inevitabilmente percepita come dotata di senso.Ritornando alla domanda posta all’inizio, quindi, sarà solo quando da un lato concepiremo questo modello innovativo nel giusto modo e dall’altro ci concentreremo, non più sulla fatica del cambiamento, ma sulle nuove opportunità offerte, che lo Smart Working e l’Happy Working potranno diventare davvero sinonimi.

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Vittoria Olivieri
Psicologa del lavoro. Svolge attività di orientamento formativo e professionale per studenti e lavoratori. Dal 2017 accompagna lavoratori e aziende nell’implementazione di percorsi di Change Management.
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Vittoria Olivieri
Psicologa del lavoro. Svolge attività di orientamento formativo e professionale per studenti e lavoratori. Dal 2017 accompagna lavoratori e aziende nell’implementazione di percorsi di Change Management.
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