Smart Working, l’esperto: “Non è solo lavorare in remoto, ma una vera rivoluzione culturale”

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Luca Brusamolino per Il Messaggero

“Lavorare in smart working non significa solo traslocare il nostro ufficio in casa o sedersi davanti a un laptop piuttosto che davanti a un pc fisso. In realtà è molto di più”.

Per Luca Brusamolino, ad di Workitect, azienda che da 4 anni offre consulenza alle imprese che vogliono rendersi più “agili”, l’emergenza coronavirus ha spinto gli italiani a un cambiamento prima tecnologico e poi culturale. L’Italia ha scoperto delle possibilità diverse.

Come sta andando?

Partiamo dal fatto che c’era una legge del 2017 sul lavoro agile in cui si spiega che si tratta di un aumento della flessibilità e dell’autonomia nella scelta di luoghi, tempi e strumenti. Ed è evidente come ruoti tutto attorno alla tecnologia.

Cosa intende?

È il più importante dei tre pilastri su cui si fonda lo Smart Working ma anche quello per cui molte aziende non erano pronte.

Ad esempio nell’ultimo corso che ho tenuto, ho riscontrato che 3 dipendenti su 4 sono forniti solo di postazioni fisse e non di un laptop. Questo già era uno scoglio difficile da superare in una situazione di emergenza.

Quali sono le altre barriere tecnologiche?

Poi i dipendenti hanno dovuto imparare a muoversi tra piattaforme come chat dedicate, archivi, calendari e strumenti per le videoconferenze che sono diventate fondamentali anche per chi le ignorava fino al giorno precedente.

Parlava di tre pilastri. Il primo è la tecnologia, il secondo e il terzo quali sono?

Un cambiamento di forma, perché in azienda non servono più gli uffici tradizionali. Poi quello delle persone, una rivoluzione culturale in cui capiamo che è possibile lavorare dall’esterno e che, per il capo, rinunciare a un po’ di controllo favorendo l’autonomia del dipendente non è un male, anzi.

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