Spazi di lavoro e “appartenenza ambientale”

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Ad agosto è uscito sul britannico New Scientist un articolo a firma Annie Murphy Paul dal titolo “The surprising ways the place where you work affects your performance”. Vi erano riportati esperimenti scientifici in merito a come il nostro cervello sia estremamente sensibile a ciò che ci circonda, sintonizzandosi su segnali e distrazioni esterni, che ci piacciano o meno. Capire come questo accade potrebbe cambiare il modo in cui lavoriamo.

Oggi un numero sempre maggiore di psicologi e scienziati cognitivi concorda che sia errato pensare al funzionamento del cervello umano simile a quello di un computer.

I computer sono indifferenti all’ambiente circostante, un laptop funziona sempre nello stesso modo, che si trovi nel nostro ufficio o a casa, sotto un neon o alla luce naturale del sole. Non si può dire del cervello umano. I ricercatori hanno dimostrato che le performance sono estremamente sensibili al contesto in cui l’individuo opera.

Sapna Cheryan dell’Università di Seattle l’ha chiamata “appartenenza ambientale”, ovvero nella nostra quotidianità sentiamo il bisogno di coltivare uno stabile senso di identità per lavorare in modo efficace. Operare in uno spazio personalizzato aumenterebbe la produttività rispetto a un ufficio anonimo, un po’ come le squadre che nel proprio stadio e con il proprio pubblico offrono prestazioni più “aggressive” nei confronti degli avversari.  

Così, quando i ricercatori hanno esaminato gli ambienti dove operavano diversi professionisti – ingegneri, agenti immobiliari, fino a direttori creativi – hanno scoperto che un terzo dei segnali di identità erano visibili soltanto al loro soggetto. Questa percentuale saliva al 70% considerando gli oggetti il cui scopo era quello di ricordare ai possessori i propri valori e obiettivi personali.

Perché c’è bisogno di questa personalizzazione? Il nostro senso di autocoscienza può sembrare stabile, ma in realtà è fluido e dipende dal mondo esterno. Quindi, le persone, occupando spazi che considerano di propria appartenenza si sentono più fiduciose e capaci.

L’appartenenza produce controllo e in un ambiente di lavoro migliora le prestazioni. 

Due psicologi, l’inglese Craig Knight dell’Università di Exeter e l’australiano Alex Haslam dell’Università del Queensland, hanno dimostrato quanto possa essere potente questo effetto con un esperimento.

Hanno chiesto ad alcuni volontari di eseguire una serie di compiti in quattro ambienti diversi: un ufficio spoglio, un ufficio già arredato con poster e piante, un ufficio organizzato secondo le preferenze dei partecipanti e un ufficio in cui le preferenze dei partecipanti erano state alterate senza il loro consenso. 

In quello spoglio i partecipanti si sono dimostrati svogliati e hanno compiuto scarsi sforzi nell’eseguire le mansioni assegnate. I soggetti sono stati altrettanto improduttivi nell’ambiente alterato. I partecipanti nell’ufficio già arredato hanno lavorato con più applicazione ma i più produttivi in assoluto sono stati quelli nell’ufficio organizzato secondo i propri gusti, completando circa il 15% in più del lavoro rispetto all’ufficio già arredato e il 30% in più rispetto a quello spoglio.

La portata di questi effetti è rilevante in un momento in cui la pandemia da Sars-CoV 2 ha costretto milioni di persone all’home working. E vale anche per i luoghi di lavoro dove non c’è la postazione fissa per i dipendenti, ovvero senza spazio dedicato si posizionano in uno dei desk disponibili quando arrivano in ufficio. 

Nel contesto di “appartenenza ambientale” non c’è solo la personalizzazione dello spazio, ma anche i suoni e i movimenti che qui vi avvengono.

Negli ultimi anni la situazione di gestione diffusasi nell’ambiente di lavoro è stata l’ufficio open space: se mal progettato rappresenta un ulteriore ostacolo all’efficienza.

Il cervello si è evoluto per monitorare continuamente l’ambiente circostante, abituato a stare sempre allerta per riconoscere nei suoni e nei movimenti i segnali di pericolo da evitare o le opportunità da cogliere. Siamo quindi naturalmente portati alla distrazione. Le telefonate dei colleghi sono le più disturbanti in assoluto perché il nostro cervello, pur impegnato in un’analisi di un compito, è nato per accendersi al riconoscimento di una voce umana. 

In conclusione, la pandemia ha alterato gli spazi di lavoro, adesso c’è da ripensare un nuovo ritorno in ufficio e abbiamo l’occasione di progettarlo per permearlo di un senso di appartenenza e per garantire una maggiore privacy. Come fare nello specifico dovete chiederlo a Workitect, io mi limito ad essere ospitato sul loro blog!

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Francesco Sani
Giornalista Pubblicista laureato in Sociologia all'Università di Firenze. È Direttore della rivista Firenze Urban Lifestyle e collabora con altri magazine e blog su temi attinenti Cultura, Ambiente e Società. Scrive e ha scritto per Il Fatto Quotidiano, Smart Working Magazine e Artribune.
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Francesco Sani
Giornalista Pubblicista laureato in Sociologia all'Università di Firenze. È Direttore della rivista Firenze Urban Lifestyle e collabora con altri magazine e blog su temi attinenti Cultura, Ambiente e Società. Scrive e ha scritto per Il Fatto Quotidiano, Smart Working Magazine e Artribune.
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