Ho il cuore a mille. In mezzo a “Villa Ada”, parco romano che sembra un bosco fatato in mezzo alla città (e che è stato il palcoscenico di uno dei migliori libri di Ammaniti “Che la festa cominci”), dove puoi trovare Sfingi, cavalli allo stato brado, antenne alte centinaia di metri, alberi amazzonici e giostre decadenti per bambini, mi sono imposto di svolgere un’attività in passato da me detestata: “correre”.
Sarà il compleanno appena passato o la crisi di mezza età in corso (che forse è la stessa cosa), ma oggi mi ritrovo sudato, vestito con colori improbabili, simile a un evidenziatore Stabilo-boss verde, in una foresta nel cuore della città. E nonostante la cosa sorprenda prima di tutto me stesso, mi piace.
Avevo avuto un avvertimento da un angelo custode che mi ha introdotto a questa pratica masochista. Arriverà un momento in cui dovrai “rompere il fiato”.
L’espressione ha qualcosa di terrorizzante (lo dico per quei cinque in Italia che, oltre me, non la conoscono) e significa che, esaurita una prima fase di emergenza fisica (e soprattutto psichica), in cui il cuore sembra volare sul tagadà e i polmoni fuoriuscire dal petto per andare a fare due chiacchiere al bar sotto casa, si avvia una (lunga) seconda fase in cui la frequenza cardiaca e la respirazione si regolarizzano e la corsa diventa meno faticosa, più fluida.
Ecco, sappiate che non è una leggenda come quella del mostro di Loch Ness o un animale mitologico come l’unicorno, ma la “rottura” del fiato esiste davvero e funziona. Sono qui ancora a potervelo raccontare.
Il senso filosofico della cosa (profilo che mi ostino a cercare sempre) è che una volta toccato il fondo si deve necessariamente risalire, anche se, alla luce del percorso che mi aspetta, mi vengono in mente le drammatiche parole di Charles Bukowski che in “Compagno di sbronze”, mi aveva già suggerito che “si può toccare il fondo e poi trovare ancora un altro fondo…”.
Messo da parte Bukowski – di certo persona poco interessata al jogging – ricomincio, in maniera forse un po’ claudicante, a risalire la strada e, tentando di distrarmi, mi viene in mente una telefonata ricevuta poco prima da parte dell’amico Luca Brusamolino, che mi riferisce di molte società preoccupate perché un esponente politico avrebbe dichiarato che anche per i lavoratori in smart working – e in particolare per gli ultracinquantenni – sarebbe necessario il green pass (rafforzato) per svolgere attività lavorativa.
Ecco è necessario “rompere il fiato” anche in punto di smart working e di normativa sul green pass. Bisogna superare il punto critico e, come il gioco adolescenziale iniziatore di tanti primi baci, decidere se volere l’obbligo oppure la verità. Oggi scelgo verità, perché l’obbligo non c’è.
Premettendo che sono senza alcun dubbio favorevole alla vaccinazione, non bisogna però utilizzare lo strumento dello smart working per rincorrere obiettivi diversi da quelli che sono perimetrati e previsti dalla normativa.
Senza volere in questa sede scendere nel dettaglio, basti dire che la normativa sul green pass nel mondo del lavoro tutela, ovviamente, i luoghi di lavoro al fine di garantire ambienti salubri e sicuri. Se un lavoratore è in smart working non si comprende né la ragione per cui un datore di lavoro dovrebbe controllare i green pass (essendo il datore il responsabile della sicurezza sul lavoro), né come potrebbe farlo.
Se in smart working l’ultracinquantenne non vaccinato sarà sanzionabile in qualità di cittadino con la “famosa” multa di € 100,00 da parte dell’Agenzia delle entrate, ma non potrà essere soggetto a controlli da parte del datore di lavoro.
Discorso diverso è se lo strumento dello smart working diventa un modo per “eludere” la normativa sul green pass (magari in forza di un’intesa fraudolenta tra datore e prestatore), ma le condotte evasive saranno oggetto di verifiche da parte degli enti competenti.
Il principio, o meglio la “verità”, è e rimane che il green pass, almeno per la normativa attuale, non può essere richiesto per la prestazione svolta in smart working.
Cartesio diceva già ai suoi tempi che la moltitudine delle leggi fornisce spesso giustificazioni ai vizi ed è ovvio che per l’emergenza che stiamo vivendo è facile compiere, anche con i migliori propositi, alcuni errori; ma dobbiamo sforzarci, soprattutto in tema di smart working e a un passo dal rientro nella disciplina ordinaria, di dimostrare la sua “verità” e i corretti perimetri della disciplina normativa.
In questa corsa che stiamo già facendo da alcuni anni per provare a cambiare e a far evolvere il mondo del lavoro in modo “agile”, dobbiamo prestare la massima attenzione ai messaggi in tema di smart working per non rovinare un risultato ormai alla nostra portata. Eugenio Montale, che probabilmente non si è mai impegnato in jogging sui pendii delle Cinque Terre, sognava di diventare un maratoneta, io invece questa aspirazione la perseguo per diffondere insieme ai miei compagni di corsa lo smart working in Italia. Sant’Agostino enunciava che “La volontà sta alla grazia come il cavallo alla corsa”, a noi non manca la prima e (forse) neanche la seconda.