L’ufficio è uno spazio straniero?

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Emergenza pandemica e Smart working

L’emergenza pandemica e lo smart working hanno rivoluzionato il modo di lavorare delle persone.

L’ufficio “sinistri” dei film di Fantozzi non esiste, ma le aziende più all’avanguardia, vedi Google, dicono sia necessario mantenere uno spazio comune tra i lavoratori. Parallelamente, da Roma a Milano i coworking si sono inseriti nell’offerta di spazi con proposte sempre più accattivanti per quelle realtà che una sede hanno scelto di non averla proprio. 

Poi ci sono delle persone che hanno deciso che l’ufficio non è più un luogo dove passare un terzo della propria giornata, perché non risponde affatto alle esigenze di benessere

La scrittrice Emma Goldberg, che si occupa di tematiche legate al future of work per il New York Times, ha riflettuto come dopo due anni di remote working molti “colletti bianchi” non vogliono tornare in presenza come prima, per una serie di motivi che un tempo sarebbero sembrati banali.

Cartellini da timbrare, battutine, chiacchiericci e ripicche tra colleghi appaiono oggi intollerabili per molti lavoratori, in particolare quelli di sesso femminile. Tra l’altro la concezione stessa dell’ufficio moderno, ricorda la Goldberg, è a taglia unica: quella maschile.

Una concezione nata negli USA e sempre lì, nel 1939 a Racine, in Wisconsin, fu inaugurato il primo open space per gli impiegati. Allora le donne erano solo un terzo della forza lavoro e il design di quegli spazi rispondeva a una logica prettamente maschio-centrica. Non erano gli spogliatoi di una squadra di football, ma regnavano assenza di privacy e maschilismo. Anche la temperatura del riscaldamento centralizzato era impostata su una base termo-igrometrica che prendeva a riferimento l’uomo di 40 anni, quindi le donne dovevano vestirsi più pesanti per stare in ufficio! Purtroppo, non è cambiato molto nei successivi 80 anni.

Quando è arrivata la pandemia anche nella più moderna (così ci dicono…) economia occidentale sono passati da un 5% di dipendenti abitualmente in smart working a oltre il 60% da remoto, esattamente come in Italia.

Conclude la Goldman citando un’affermazione di Joan Williams, direttrice del Center for worklife law della University of California: “[…] l’unica cosa che ha sempre ostacolato la flessibilità è la mancanza di fantasia, due anni fa il problema è stato risolto in tre settimane”.

Ma poi le aziende hanno scoperto di avere un altro problema: richiamare in sede i dipendenti. Tanti di coloro in modalità remote working si sono convinti che lavorare fino a tardi o essere disponibili oltre l’orario non era più importante per mettersi in mostra con il boss. Non c’erano permessi da chiedere per faccende private o dedicarsi ai figli. Ed era finito il mobbing per chi pensava di esserne vittima, il fastidio scaturito delle domande impertinenti del collega impiccione e l’irritazione per la fotocopiatrice che si inceppava:

Sistema ibrido: una nuova normalità

Così oggi i dirigenti che spingono per un ritorno in ufficio o un sistema ibrido presenza/ da remoto – come esisteva già in certe aziende – trovano una strenua opposizione da parte di collaboratori che vantano il ritrovato benessere.

Alcune realtà sono venute incontro alla “nuova normalità”, la prima è stata Twitter già nel 2020 con lo smart working per sempre, ma anche fuori dal settore high-tech ci sono aziende che assecondano il trend.

La multinazionale britannica dei servizi di consulenza PricewaterhousCoopers ha annunciato che 40mila dei suoi dipendenti a livello globale non sono più obbligati a tornare in ufficio. 

Una domanda del questionario predisposto per l’indagine del New York Times sulla produttività nelle organizzazioni, prevedeva una risposta che evidentemente in molti hanno barrato: “I will never come back to office”.

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Francesco Sani
Giornalista Pubblicista laureato in Sociologia all'Università di Firenze. È Direttore della rivista Firenze Urban Lifestyle e collabora con altri magazine e blog su temi attinenti Cultura, Ambiente e Società. Scrive e ha scritto per Il Fatto Quotidiano, Smart Working Magazine e Artribune.
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Francesco Sani
Giornalista Pubblicista laureato in Sociologia all'Università di Firenze. È Direttore della rivista Firenze Urban Lifestyle e collabora con altri magazine e blog su temi attinenti Cultura, Ambiente e Società. Scrive e ha scritto per Il Fatto Quotidiano, Smart Working Magazine e Artribune.
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