Lo smart working è una cosa da ricchi?

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Lo smart working è stato prorogato dal 30 giugno 2022 fino al 31 agosto 2022, in questo modo è stata data la possibilità alle imprese private di far ricorso lavoro agile con la sua forma semplificata. Così, fino quasi alla fine dell’estate si potranno evitare di sottoscrivere gli accordi individuali generalmente richiesti dalla normativa in vigore. Bene, e adesso concentriamoci sul quesito posto dal titolo. 

Negli ultimi due anni si sono sprecati articoli in tutto il mondo su come la percentuale di persone in remote working fosse esplosa a causa della pandemia sanitaria. Poi si è scritto che molte persone, una volta imparato a gestirlo, abbiano chiesto di non rientrare in ufficio. Infine, le ricerche hanno registrato un altro dato, che fa sospettare come lo smart working sia probabilmente un privilegio per chi ha già un buon lavoro e stipendio.

A fine 2020 già l’INAPP – l’istituto Nazionale per le Analisi delle Politiche Pubbliche – aveva stimato che coloro che svolgono lavori caratterizzati da un’alta attitudine alla flessibilità potevano contare su un salario anno più alto mediamente tra il 10 e il 17 % rispetto ai dipendenti con bassa propensione alla remotizzazione.

Erano gli effetti indesiderati del lavoro agile, visto come qualcosa appannaggio di settori esclusivi, dal pubblico impiego alla finanza, dalla comunicazione ai servizi professionali. Sembrava al momento piuttosto naturale, invece oggi scopriamo che non è solo una causa-effetto quanto il risultato di disuguaglianze già presenti nella società: centro-periferia e capitale-lavoro.

Uno studio della Banca d’Italia restituisce un lato oscuro del lavoro agile nel nostro paese: la probabilità di lavorare in un settore in cui è consentito lo smart working è più alta per i redditi più alti. Non solo la crescita del remote working è cresciuta più tra gli uomini e per chi vive nelle grandi città ma, come dimostrato dalla ricerca, nel 20% più ricco delle famiglie italiane la quota dei lavori che possono essere svolti in modalità smart è di 30 punti percentuali più alta rispetto alla fascia delle famiglie più povere.

A ben guardare la mappa di Eurostat sulla variazione percentuale delle persone che lavorano in home working rispetto al 2019, salta all’occhio siano le economie a maggior valore aggiunto e le metropoli ad aver beneficiato del lavoro agile post-pandemia.

Esclusa la Gran Bretagna – non più membro dell’UE e di cui non sono forniti dati – questa mappa d’Europa parla chiaro da ovest a est e da nord a sud: le province di Madrid, Tolosa, Parigi, Dublino, Monaco di Baviera, Stoccarda, Francoforte, Berlino, Milano, Roma, Helsinki e Varsavia sono quelle che hanno visto un incremento superiore al 10% dello smart working. Che la Svezia ne abbia conosciuto un incremento solo del 3% è invece da leggere come la già grande diffusione nel paese anche in epoca pre-pandemia.

In sintesi è cresciuto nei paesi più ricchi d’Europa e all’interno di questi nelle aree più digitalizzate e interconnesse.

Quindi, per chiudere il cerchio con quanto detto nell’introduzione, i dati dimostrano che lo smart working – nonostante sia largamente utilizzato da più di due anni – non coinvolga tutti i lavoratori e le aree indistintamente, bensì i più ricchi tra i ricchi.

Francesco Sani
Francesco Sani
Giornalista Pubblicista laureato in Sociologia all'Università di Firenze. È Direttore della rivista Firenze Urban Lifestyle e collabora con altri magazine e blog su temi attinenti Cultura, Ambiente e Società. Scrive e ha scritto per Il Fatto Quotidiano, Smart Working Magazine e Artribune.
Francesco Sani
Francesco Sani
Giornalista Pubblicista laureato in Sociologia all'Università di Firenze. È Direttore della rivista Firenze Urban Lifestyle e collabora con altri magazine e blog su temi attinenti Cultura, Ambiente e Società. Scrive e ha scritto per Il Fatto Quotidiano, Smart Working Magazine e Artribune.
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