Parlare di settimana corta in Italia non ha ancora senso

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Con la pandemia si sono moltiplicate le riflessioni sul tema del benessere al lavoro e la necessità di una migliore worklife balance. Dopo la diffusione del remote working, il dibattito su una più moderna organizzazione ha riguardato tutte le economie avanzate.

Così, il 2022 è l’anno della sperimentazione della settimana lavorativa corta in alcune aziende di Spagna e Gran Bretagna. Le 32 ore sono rivoluzionarie e hanno senz’altro numerosi benefici: meno stress, meno inquinamento per l’ambiente dalla riduzione degli spostamenti, più tempo libero per dedicarsi ad attività culturali o fisiche.

In un articolo apparso su The Conversation, a firma David Spencer, “Four-day work week is a necessary part of human progress,si ricorda come nel 1930 John Maynar Keynes – uno dei più grandi economisti di tutti i tempi – avesse profetizzato che entro il 2030 la settimana lavorativa sarebbe stata di sole 15 ore. Keynes riteneva che lo sviluppo avrebbe ridotto il tempo di lavoro senza fondamentali riforme al sistema capitalistico. Quasi cento anni dopo, la realtà è che nessuno dei paesi moderni si è realmente avvicinato alle 30 ore, figuriamoci dimezzarle!

Ma restiamo al dibattito della premessa e constatiamo che in Italia tutto tace. Ora, noi potremmo lamentare la cronica arretratezza culturale delle nostre aziende, del change management e delle organizzazioni in genere, ma forse il problema sta a monte. Come si fa a parlare di lavorare quattro giorni anziché cinque quando abbiamo difficoltà strutturali che non riusciamo a superare dagli anni ’90?

Il mercato del lavoro in Italia è pieno di contraddizioni che rendono il tema della “settimana corta” fuori luogo. 

Il nostro Paese ha storici problemi di produttività e – nonostante un rimbalzo del PIL del 6% e le prospettive del PNRR – ha ancora un tasso di disoccupazione medio intorno al 10%, con punte del 30% per quella giovanile.

Le imprese lamentano carenza di manodopera specializzata e un gap di conoscenze nel passaggio dalla scuola all’impiego.

Le donne hanno uno dei tassi d’occupazione tra i più bassi d’Europa – senza considerare che i loro contratti sono spesso “a porte girevoli” – rispetto agli uomini.

I sindacati chiedono sistemi di pensionamento anticipato anche in settori dove c’è sviluppo come l’edilizia. I salari reali italiani sono tra i più bassi della zona Euro ma le aziende lamentano un costo del lavoro tra i più alti.

Confindustria si lamenta per l’alto cuneo fiscale e in genere per tutto quello che è accaduto dalla Rivoluzione Industriale a oggi… Aggiungiamoci infine che dal 2013 al 2021 sono morte sul posto di lavoro ben 10.000 persone (stiamo parlando di individui che erano andati a svolgere la loro mansione, non a combattere nella guerra civile in Yemen!). 

Il sottoscritto è favorevole alla settimana corta, al Reddito di base, alle 35 ore e tutto quello che garantisce maggior autonomia dei lavoratori (fino all’autogestione delle fabbriche com’era nella Jugoslavia socialista!), ma forse abbiamo altri nodi da sciogliere prima.

Noi dobbiamo fare un salto tecnologico e digitale tale da mettere le aziende in condizione di migliorare i loro processi produttivi e la loro organizzazione del personale, altrimenti nessuna modifica del tempo sarà rivoluzionaria. 

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Francesco Sani
Giornalista Pubblicista laureato in Sociologia all'Università di Firenze. È Direttore della rivista Firenze Urban Lifestyle e collabora con altri magazine e blog su temi attinenti Cultura, Ambiente e Società. Scrive e ha scritto per Il Fatto Quotidiano, Smart Working Magazine e Artribune.
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Francesco Sani
Giornalista Pubblicista laureato in Sociologia all'Università di Firenze. È Direttore della rivista Firenze Urban Lifestyle e collabora con altri magazine e blog su temi attinenti Cultura, Ambiente e Società. Scrive e ha scritto per Il Fatto Quotidiano, Smart Working Magazine e Artribune.
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