Ripensare il lavoro nell’era della crisi climatica

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Gli effetti del surriscaldamento globale

Nel 2014 in Francia andarono in onda delle finte previsioni del meteo per un immaginario 21 giugno 2050. L’annunciatrice aveva alle spalle la classica mappa del Paese con il bollettino delle temperature: Parigi 40°, Marsiglia 44°, Lione 43°, ecc… Si voleva sensibilizzare i telespettatori su quella che sarebbe stata l’estate francese a causa del cambiamento climatico.

Peccato che quelle proiezioni al 2050, e quindi le previsioni, si siano già rivelate sbagliate. Lo abbiamo capito nel secondo weekend di giugno 2022 – quindi solo 8 anni dopo quel finto meteo – quando tutta la Francia ha sfiorato quelle temperature con l’ondata di calore record e i 38° a Parigi o i 42° in Bretagna. La realtà peggio del futuro distopico immaginato!

Uno studio condotto dai ricercatori dell’Università di Copenaghen, nell’ambito del progetto Heat-Shield, ha rivelato che il 50% di tutta la forza lavoro europea è impiegata in settori che subiscono l’impatto di temperature sempre più elevate: dal settore manifatturiero a quello edilizio, dai trasporti, al turismo, all’agricoltura.

Questo significa che milioni di europei durante il corso della giornata lavorativa sono a rischio scarsa idratazione. Non solo, le grandi temperature aumentano la stanchezza e quindi il rischio di infortuni e incidenti.

D’altra parte il cambiamento climatico è dimostrato avere già un effetto sul sonno, l’aumento delle temperature ci farà dormire sempre meno e anche la nostra capacità di concentrazione ne sarà segnata.

La produttività sarà decrescente, non bisogna essere scienziati, sappiamo già che con il caldo si lavora peggio! L’aria condizionata degli uffici rende tollerabile solo la nostra presenza all’interno di edifici energicamente colabrodo, ma il nostro benessere igrometrico comunque subisce le alte temperature dell’ambiente.

Tra l’altro il calore estratto dagli edifici viene trasferito all’esterno, rendendo ancora più calde le città, in un circolo vizioso che si autoalimenta. Un pomeriggio di luglio del 2019, sui Navigli a Milano, ebbi una sensazione che avevo provato solo a Las Vegas d’agosto. <<No – mi corresse il mio collega, gran viaggiatore in Asia – questo è il clima di Bangkok!>>.

Smart Working e crisi climatica

Nella nostra epoca il lavoro, inteso come modello organizzativo, necessita un adeguamento alla crisi climatica. Con le emissioni di CO2 delle attività umane che incidono almeno per il 30% sul clima impazzito, anche “il lavoro” deve fare la sua parte per salvare il pianeta.

Bisogna decarbonizzare la nostra economia e questo comporta evidentemente un’ottimizzazione della logistica e delle emissioni legate. Chiaramente la grande finanza deve disinvestire nelle multinazionali dell’estrazione delle fonti fossili, ma da parte delle nostre organizzazioni, cosa possiamo fare?

Sto dicendo che lo smart working (e il coworking) dovrebbero rientrare nelle strategie aziendali per ridurre l’impatto climatico del lavoro. Ancora, lo smart working è la prima leva di sostenibilità per le imprese.

Uno studio commissionato da Regus nel febbraio del 2020, appena prima che la pandemia rendesse il remote working una necessità emergenziale, rivelava come la flessibilizzazione dei luoghi di lavoro avrebbe potuto garantire una significativa riduzione delle emissioni legate al pendolarismo. Si calcolava che il passaggio a una condizione di smart-working da casa o in coworking avrebbe consentito di ridurre le emissioni globali di circa 214 milioni di tonnellate in 10 anni.

Un anno dopo quello studio abbiamo avuto dei dati reali su cui ragionare. Come riporta un articolo de Il Corriere della sera dell’11 giugno 2011, a firma Valentina Iorio, durante il lockdown in Italia avevamo 6,58 milioni di persone che hanno lavorato da remoto. Ciò si è tradotto in un risparmio di emissioni calcolato in 1.861 kg annui di CO2 per ciascun lavoratore. Il dato italiano è il più alto tra i Paesi presi in considerazione da quel rapporto.

Il cambiamento climatico è inarrestabile e inesorabile dicono gli esperti, possiamo solo rallentarlo e adattarci nel frattempo. Ma adattamento non significa solo transizione ecologica e più aree verdi urbane, ma anche ripensare i modelli di lavoro subordinati tradizionali. La famosa “transizione” è anche una questione di immaginazione.

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Francesco Sani
Giornalista Pubblicista laureato in Sociologia all'Università di Firenze. È Direttore della rivista Firenze Urban Lifestyle e collabora con altri magazine e blog su temi attinenti Cultura, Ambiente e Società. Scrive e ha scritto per Il Fatto Quotidiano, Smart Working Magazine e Artribune.
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Francesco Sani
Giornalista Pubblicista laureato in Sociologia all'Università di Firenze. È Direttore della rivista Firenze Urban Lifestyle e collabora con altri magazine e blog su temi attinenti Cultura, Ambiente e Società. Scrive e ha scritto per Il Fatto Quotidiano, Smart Working Magazine e Artribune.
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