Il 2022 è stato l’anno della sperimentazione della settimana lavorativa corta in alcune aziende europee. Le “32 ore” sono entrate nel dibattito pubblico anche in Italia, a partire dal sottolinearne i numerosi benefici: meno stress, meno inquinamento per l’ambiente dalla riduzione degli spostamenti, più tempo libero per dedicarsi ad attività culturali o fisiche. Ne abbiamo parlato anche su questo blog in un articolo di due anni fa.
Lo scorso anno, poi, nel nostro Paese gli accordi sindacali a Luxottica e Lamborghini hanno disegnato un modello di nuova organizzazione del lavoro sotto molteplici punti di vista. “Ma essere leader di mercato aiuta?” si sono giustamente chiesti gli amici di Smart Working Magazine.
Adesso, con un articolo apparso sul Financial Times sono state tirate le fila dei dati raccolti dalle Università di Cambridge, Salford e Boston College in seguito alla fine della sperimentazione della settimana corta nelle aziende che avevano aderito al progetto nel Regno Unito. Nel commentare lo studio, la giornalista Emma Jacobs sostanzialmente ha evidenziato che gli effetti sono stati positivi quando si è investito nella tecnologia e nell’aumento della produttività.
Dallo studio in questione risulta che 57 delle aziende coinvolte nell’esperimento hanno continuato nell’orario flessibile, 5 sono tornate alla settimana classica di cinque giorni e 2 non hanno risposto. In tutte le realtà l’82% dei manager hanno dichiarato di aver constatato un maggior benessere e i lavoratori hanno aumentato il livello di soddisfazione per il loro impiego.
In merito alle ore di lavoro, con la sperimentazione, la settimana tipo era mediamente di 31,6 ore. Alcune aziende hanno optato per il giorno libero il venerdì, la maggior parte, altre hanno lasciato al personale di decidere autonomamente il giorno. In alcuni casi è stato chiesto ai lavoratori la flessibilità di adeguarsi a improvvisi carichi di lavoro. I “giorni flessibili” hanno permesso di rispondere a temporanei picchi o alle questioni urgenti.
Tuttavia, a giudizio dell’economista Michael Sanders, docente del King’s College di Londra, trarre conclusioni generali dallo studio è difficile e non mancano i limiti a questa sperimentazione. Delle oltre 60 aziende britanniche coinvolte, la maggior parte era classificata come “piccola impresa” e solo una decina aveva più di 200 dipendenti. Tra l’altro, secondo il Chartered Institute of Personnel and Development, solo l’1% delle aziende del Regno Unito prevede di poter ridurre l’orario di lavoro a stipendi invariati.
La trappola della produttività
Ci sono due questioni che rendono la sperimentazione un’incognita se applicata su larga scala. La prima riguarda la produttività: molte aziende non sono in grado di misurarla nel lavoro d’ufficio. Siamo ancora abituati a misurare le ore ma non quanto siamo produttivi, perché pure la settimana corta replica la modalità di pensare il lavoro sulla variabile del “tempo” e non sulla “qualità”.
La seconda è la capacità organizzativa: alcune aziende hanno dichiarato che hanno aumentato i costi perché hanno assunto della forza lavoro per compensare la riduzione di orario, altre ancora che ci sono volute settimane di sei giorni per prepararsi a quella di quattro!
In conclusione, dobbiamo fare un salto tecnologico e organizzativo tale da mettere le aziende in condizione di migliorare i loro processi produttivi e la gestione del personale, altrimenti nessuna modifica del tempo sarà rivoluzionaria: per lavorare meno bisogna saper lavorare meglio.