Lo smart working non incide sulle disparità di genere?

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Anche lo smart working si inserisce nel nodo della disparità di genere sul lavoro? È quello che potrebbe emergere da una ricerca svolta da Economic Graph di LinkedIn per Il Corriere della Sera.

In un articolo dello scorso 17 marzo, appunto sul Corriere, a firma dell’economista Fabrizio Fubini, si tirano le fila dei dati raccolti dagli utenti italiani del celebre social professionale: le lavoratrici hanno meno accesso alle nuove forme di flessibilità del lavoro emerse dopo la pandemia rispetto ai colleghi maschi. Quindi lo smart working, tra coloro che sono stati presi in esame, è praticato per il 5,8% delle lavoratrici rispetto al 6,8% dei lavoratori. Inoltre le donne hanno l’obbligo di presenza per il 71,7% del campione contro il 65,6% dei colleghi uomini. Il commento di Fubini è dunque ficcante:

“le differenze fra uomini e donne sul luogo di lavoro a volte non si contano, ma si pesano. Si vivono e si avvertono nella pratica quotidiana più di quanto non sia possibile leggerle nei contratti […]”.

Come può spiegarsi?

Proprio secondo LinkedIn, forse perché gli uomini ricoprono più posizioni apicali e hanno maggior possibilità di gestione del tempo operativo con maggiore libertà. Infatti, come rivelato dallo studio della LUISS, solo il 32% delle donne ricopre un ruolo manageriale. Questo è una realtà fattuale, al di là della formale mancanza di differenze di genere nell’accesso ai diritti negli accordi contrattuali, soprattutto nelle grandi aziende.

World Economic Forum: “la questione femminile nel mercato del lavoro limita le prospettive di crescita economica dell’Italia”

Considerata la ricerca di cui sopra, giova ricordare il contesto in cui si inseriscono questi dati, dove il tasso di partecipazione femminile al mondo del lavoro è troppo basso se paragonato alle altre  economie d’Europa, già denunciato pure dal World Economic Forum.

In Italia non è inferiore solo a economie “forti” come quelle di Germania o Svezia, ma anche a economie “deboli” come Grecia o Bulgaria. Inoltre, a causa delle crisi globali del 2008/ 2009 e 2020/ 2021 – che hanno penalizzato perlopiù le donne – l’occupazione delle italiane laureate nella fascia d’età under 34 è oggi inferiore a quella del 2004.

Il tasso di partecipazione al mercato del lavoro dieci anni fa era di poco superiore al 50%, 20 punti inferiore rispetto a quello maschile (nelle regioni del Sud Italia il divario è pari a oltre 25 punti percentuali). Nell’ultimo decennio il tasso di attività femminile è aumentato, il doppio di quello degli uomini e nel secondo trimestre del 2023 ha raggiunto il livello del 52,3% nella fascia d’età 15-64 anni (dati Istat), ma siamo sempre ben 13,8 punti sotto la media europea.  

La disparità di genere si rintraccia anche nelle retribuzioni, “donne e lavoro” sembra un binomio che non funziona in Italia. Il gap con gli uomini in termini di salari è evidente, sono più bassi mediamente del 10%.

In conclusione vorrei chiedermi se in un Paese dove la maternità mal si concilia con l’occupazione – la probabilità per le donne italiane di perdere il lavoro nei due anni successivi alla maternità è doppia rispetto alle colleghe senza figli – lo smart working potrebbe essere invece di aiuto. Perché i dati dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro sono impietosi: a dimettersi sono perlopiù donne che non riescono a conciliare famiglia e lavoro. 

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Francesco Sani
Giornalista Pubblicista laureato in Sociologia all'Università di Firenze. È Direttore della rivista Firenze Urban Lifestyle e collabora con altri magazine e blog su temi attinenti Cultura, Ambiente e Società. Scrive e ha scritto per L'Espresso, Il Fatto Quotidiano, Smart Working Magazine e Artribune.
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Giornalista Pubblicista laureato in Sociologia all'Università di Firenze. È Direttore della rivista Firenze Urban Lifestyle e collabora con altri magazine e blog su temi attinenti Cultura, Ambiente e Società. Scrive e ha scritto per L'Espresso, Il Fatto Quotidiano, Smart Working Magazine e Artribune.
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