Relazioni, lavoro e vita post-pandemica due anni dopo la fine del lockdown

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“Il giorno seguente non morì nessuno”. 

Le intermittenze della morte, José Saramago

Il 4 maggio 2020 terminava il più grande confinamento di popolazione nella storia italiana a causa di una pandemia. A due anni di distanza da quel lockdown – e oggi anche con la fine dello stato di emergenza – quanto è cambiata la nostra società?

In primis diciamo che la rivoluzione sociale, cominciata e cresciuta con la diffusione di Internet, ha subito una ulteriore evoluzione. L’utilizzo massiccio del web ci ha permesso di allargare il nostro mondo ed essere presenti a chilometri di distanza da dove ci troviamo. Ma è soprattutto attraverso l’utilizzo dei social che è aumentata la nostra esigenza di apparire per essere identificati anche altrove. Adesso, questo strumento, è diventato qualcosa di più, dopo essere stato la principale forma di interazione sociale. Questo è già un bel cambiamento. Il dilemma “esco o resto sul divano a guardare Netflix?” è tornato nella nostra mente, ma ha assunto un nuovo senso. Qualcuno continua a fare binge-watching di serie Tv ma, se Netflix ha annunciato ad aprile di aver perso 200mila di abbonati, molti si sono iscritti a una piattaforma di streaming probabilmente nei lunghissimi due anni di pandemia ma adesso preferiscono altro. 

L’isolamento imposto dall’emergenza sanitaria si è rivelato un grande esperimento social(e). C’è stato infatti, seppur il fenomeno fosse già in corso da tempo, uno spostamento della centralità della nostra vita dalla comunità vis à vis a quella online. Il flusso continuo di scambio dati, già incrementato con lo sviluppo delle nuove tecnologie smartphone è stato esponenziale negli ultimi due anni. Il successo di App per incontri, come Tinder, che avevano già dimostrato l’inutilità di uscire per incontrare qualcuno, sono la spia dei nuovi rapporti vissuti da remoto. Poi c’è lo smart working consolidato, i webinar o le videochiamate WhatsApp diventate ormai normalità. 

Le dirette Instagram dimostrano poi la seconda rivoluzione: la società ci è entrata definitivamente in casa. Così, dal profondo delle nostre stanze a poco a poco ognuno di noi ha riacquistato la propria identità e le chat si sono trasformate, perché scrivere da casa è diverso dal farlo al tavolo di un bar mentre siamo fuori con amici e colleghi. Lì, con le dita sulla tastiera, subito viene da pensare a quante cose superflue ci siamo trovati a fare, sia in un senso (on line), sia nell’altro (vis à vis). Non parliamo qui di realtà e virtuale, perché tutto quello che ha effetti biologici è reale, siamo sempre reali quando si interagisce con qualcuno e gli provochiamo una sensazione, il virtuale essenzialmente non esiste. Questo ultimo concetto, nel quale identifichiamo la terza rivoluzione, adesso è diventato ben chiaro per molti users e sarà quello che accenderà le rivoluzioni future. Problemi relativi a tutto questo, alla privacy e al controllo totale stanno già facendo capolino da dietro l’angolo come aveva già predetto George Orwell in 1984.

Comprendere che il nostro “qui e ora” è molto più esteso di quello che pensiamo e che non esiste una differenza tra virtuale e reale, ci ha già obbligato a buttare giù la maschera? Abbiamo già mostrato realmente chi siamo? Indubbiamente è cambiato il nostro modo di vivere le relazioni, di porci nei confronti dell’altro. Se deve succedere, è già successo, lo abbiamo già visto andando a ricercare quelle cose della giovinezza che in passato ci hanno permesso di identificarci e farci spazio nel mondo.

Personalmente io sono tornato ad ascoltare i dischi dei Nirvana non perché nella colonna sonora del nuovo The Batman hanno inserito “Something in the way”, bensì i tempi che corrono hanno bisogno di musica ipnotica e distorta! Il più grande rammarico? Purtroppo non ne siamo usciti migliori, dai No-Vax ai Sì-Putin abbiamo scoperto che il campionario della fascisteria è ricco di imbecilli.

La quarta rivoluzione è che abbiamo imparato a lavorare in smart working e molti si sono licenziati quando hanno saputo che dovevano tornare in ufficio, per trovarsi un altro lavoro da svolgere in remoto. Secondo un recente articolo de Il Sole 24Ore, per circa il 90% delle aziende che l’hanno sperimentato lo smart working è una modalità di lavoro orma definitiva. Non solo, il 58% tra i neo-assunti e i dipendenti chiede il lavoro agile alle aziende come pre-condizione per poter accettare o continuare l’impiego. 

In conclusione, lavoro o relazioni sociali che siano, la vita post-pandemica ha consolidato la rivoluzione digitale. Anche io, ad essere sincero, ho intensificato la mia connessione online sapendo che sono qui, ma anche là

Articolo scritto in collaborazione con lo psicologo Dott.Claudio Simoncini.

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Francesco Sani
Giornalista Pubblicista laureato in Sociologia all'Università di Firenze. È Direttore della rivista Firenze Urban Lifestyle e collabora con altri magazine e blog su temi attinenti Cultura, Ambiente e Società. Scrive e ha scritto per Il Fatto Quotidiano, Smart Working Magazine e Artribune.
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Francesco Sani
Giornalista Pubblicista laureato in Sociologia all'Università di Firenze. È Direttore della rivista Firenze Urban Lifestyle e collabora con altri magazine e blog su temi attinenti Cultura, Ambiente e Società. Scrive e ha scritto per Il Fatto Quotidiano, Smart Working Magazine e Artribune.
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