“Ma che veramente?” questa è la frase, sicuramente approssimativa sotto il profilo grammaticale, che borbotto tra me e me quando finisco di leggere gli interventi che si stanno discutendo per modificare la normativa sullo Smart Working (e cioè la Legge 81/2017).
Mi stropiccio gli occhi augurandomi di avere bevuto un bicchiere di troppo di Don Papa (il mitico rhum di Sancio Panza), che mi fa compagnia in questa notte di una primavera che non sembra arrivare mai.
E invece il Don Papa è ancora tutto lì, insieme alla mia espressione tra l’incredulo e l’infastidito per quello che ho appena scoperto.
Pur ammettendo presuntuosamente di saperne molto sul tema del lavoro agile (se non altro perché ci ho familiarizzato quando era il compagno di classe sfigato che, invece, ora tutti invitano alle feste), davvero non riesco a capire.
Apro la finestra, cercando nell’aria fresca e in una sigaretta conforto e ragioni che non riesco a trovare diversamente.
Consulto nervosamente i miei fogli di appunti sull’attuale “progetto” di riforma (o di involuzione…), prima ordinatamente sottolineati e poi sempre più indecifrabili…
Cerco di riassumere: se una cosa è chiara nel testo di legge ancora vigente è che lo Smart Working è (era) una questione tra datore di lavoro e lavoratore. Ma le cose stanno per cambiare in quanto il progetto attuale è volto soprattutto ad “aggiungere un posto a tavola”, un posto destinato alle organizzazioni sindacali.
Sì, perché si sta cercando di dare un “ruolo” alla contrattazione collettiva (di vari livelli) anche su questo tema, in materia, ad esempio: di responsabilità del datore di lavoro e del lavoratore per quanto attiene alla sicurezza; di diritto alle priorità concernenti le richieste di lavoro agile; di equiparazione del lavoratore agile con quello “tradizionale”; di diritto alla disconnessione.
A prescindere dall’aspetto strettamente giuridico, c’è un nodo gordiano che neanche il gatto che sta passeggiando sul balcone di fronte al mio terrazzo – e con cui spesso scambio vespertini pensieri – mi aiuta a sciogliere con le sue unghie.
Ma se lo Smart Working è (e senza alcun dubbio è così) una modalità di lavoro che la stessa Legge 81/2017 individua come conveniente per i datori di lavoro e i lavoratori, per quale ragione si ritiene oggi “così” necessario introdurre una disciplina contrattuale collettiva?
Con tutte le approssimazioni del caso, mi sembra palese che oltre due anni di pandemia hanno dimostrato che lo Smart Working è stato vantaggioso soprattutto per i dipendenti, tant’è vero che i casi di richiesta da parte dei dipendenti di ritornare al lavoro in modalità “tradizionale” sono molto rari, se non eccezionali. Anzi, appare chiaro che i lavoratori temono che il post-pandemia coincida con un ritorno a un lavoro in “ufficio” al 100%, con buona pace della “libertà” concessa ai prestatori anche per coltivare le proprie sacrosante esigenze personali.
E la cosa tanto grottesca da far impallidire anche la morte di Morgante (gigante epico e burlesco che Pulci fa morire per un morso di un granchietto) è che sembrerebbe che tra gli interventi di riforma della Legge 81/2017 vi sia anche quello di cancellare la parte della disposizione che definisce lo Smart Working come strumento volto a incrementare la competitività e, allo stesso tempo, conciliare i tempi di vita e di lavoro.
A prescindere da questioni più strettamente giuridiche (ad esempio cosa determinerà la mancata stipulazione di accordi in materia…), mi chiedo, senza trovare risposta, come possa essere utile aggiungere un “anello” decisionale a mio avviso superfluo (cioè l’intesa tra le parti sociali), a uno strumento che dovrebbe essere per definizione smart.
Il gatto mi sta guardando, dopo essersi grattato l’orecchio, poi prende un gomitolo (che assomiglia tanto al mio nodo gordiano) e inizia a giocarci… vedremo, magari è un invito.