Ambiente di lavoro senza stress: cosa suggerisce la psicologia del lavoro

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Oltre la metà dei lavoratori europei considera “normale” lo stress sul lavoro. Per certi versi sembrerebbe un dato allarmante, eppure è diventato un fenomeno così imponente in termini di percezione diffusa che risulta davvero un elemento di “normalità”.

Certo, come abbiamo detto più volte, esiste anche una parte di stress che non è del tutto negativa, anzi, in quanto l’ “eustress” è fondamentale per la buona riuscita del lavoro.

In questo articolo però ci concentreremo sulla parte cattiva dello stress, cercando di capire come organizzazione e lavoratore possono combatterla insieme e instaurare un ambiente di lavoro sano.

Esistono diversi casi di aziende in cui da tempo si lavora nell’ottica di ridurre in tal senso e si ottengono ottimi risultati di qualità della vita organizzativa che impattano positivamente anche sul business. Dato che è ormai chiaro che questi due fattori – il benessere delle persone e le performance di business – sono estremamente collegati, non è solo consigliabile lavorare sulla riduzione dello stress del personale, ma necessario!

Ecco dunque 3 elementi che a mio parere possono concorrere nel combattere lo stress cattivo e promuovere un ambiente di lavoro salubre.

  1. Innanzitutto, serve fiducia

Così come nella vita personale, anche nei contesti lavorativi avere fiducia significa “affidarsi a qualcuno”, “confidare in lui” di fronte a eventi imprevisti o rischiosi. Quando ci si fida tra colleghi e si dà credito ai manager si può contare su di loro e sulla loro benevolenza. Quando si diffida, invece, si tende a sospettare di loro, della loro onestà e di ogni loro proposta. In quest’ultimo caso diventa difficile cooperare quando si trascorre gran parte del tempo a mascherare le proprie diversità, a nascondere i propri punti deboli e a guardare costantemente le spalle consumando energie che sarebbero utili per l’efficacia produttiva o per la generazione di idee innovative. Pertanto la fiducia è sempre più intesa come risorsa preziosa per un ambiente di lavoro sano.

Godendo i leader di un vantaggio gerarchico nell’accesso alle informazioni e alle risorse e nel gestire le decisioni più importanti, essi avranno un ruolo centrale anche nel generare un clima di fiducia. In tal senso, l’esperienza ci dice che un leader, per poter ricevere fiducia, deve saper compiere il primo passo, cioè deve egli per primo dare fiducia ai propri collaboratori, e non a parole ma con azioni concrete. Ciò significa un cambiamento di mentalità gestionale che implica nuove dinamiche organizzative: una fra tutte, quella di essere disponibili all’ascolto prima di agire, alimentando una “politica delle porte aperte” in cui il personale possa comunicare in merito alle proprie preoccupazioni senza timori di giudizi negativi o di sanzioni (Sarchielli, 2019).

  1. Incrementare il grado di resilienza dell’organizzazione

Ormai siamo consapevoli che le condizioni di lavoro si fanno sempre più sfidanti per le persone. Si diffondono sempre più processi di intensificazione del lavoro (carichi pesanti, tempi ristretti, scadenze irrealistiche, costante connessione, ecc), aggiunti a situazioni di rischio psicosociale (ambiguità di ruolo, comunicazioni povere, insicurezza occupazionale, conflitti, leadership autoritaria, molestie, squilibri casa/lavoro, ecc). La domanda lecita che si solleva allora è: “perché alcuni lavoratori riescono a tenere il passo e rimangono in grado di trovare soddisfazione per la loro carriera malgrado le difficoltà e gli imprevisti negativi mentre altri risultano sopraffatti e tendono ad arrendersi?”

Una delle risposte possibili si richiama alla nozione di resilienza psicologica, intesa come capacità di perdersi d’animo, di recuperare e addirittura di crescere anche di fronte alle avversità o ai cambiamenti imposti da condizioni sfavorevoli o stressanti. Essa facilita l’utilizzo di strategie di coping più efficaci e ha un ruolo protettivo rispetto al burnout. I lavoratori resilienti, inoltre, sono più soddisfatti e più coinvolti sul lavoro e pertanto attuano prestazioni qualitative e quantitative migliori rispetto ai colleghi meno resilienti. Questi dati dovrebbero sollecitare l’interesse dei datori di lavoro giacché non riguardano solo il benessere individuale. Infatti, avere persone resilienti nella propria organizzazione produce un vantaggio competitivo per le stesse organizzazioni, dal momento che non solo ha effetti positivi sulle prestazioni ma costituisce un fattore di miglioramento della complessiva prontezza di risposta e adattabilità delle organizzazioni alle dinamiche dei mercati. Recenti studi sono ottimistici nell’affermare che tutte le organizzazioni possono migliorare la loro capacità di far fronte alle difficoltà, lottare con grinta e prosperare anche quando il “gioco si fa duro”. La resilienza si può rafforzare, da un lato, attraverso formazione, pratica e sostegno di specifiche iniziative di tipo psicologico e, dall’altro, sicuramente tramite un contesto culturale e organizzativo facilitante. Ciò significa, per esempio, assumere un’ottica preventiva piuttosto che reattiva di fronte a situazioni di stress o incoraggiare i manager ad aiutare i collaboratori nel gestire situazioni difficili e nello sviluppare capacità di risoluzione dei problemi, permettendo di imparare anche da errori e insuccessi.

  1. Migliorare il lavoro con spinte gentili

Per migliorare l’ambiente di lavoro e risolvere eventuali situazioni critiche, le soluzioni prevalentemente adottate riguardano due classiche strategie manageriali, ciascuna con i suoi pregi e i suoi difetti:

  1. imporre obblighi e regole più stringenti, con relativi controlli e sanzioni; via autoritaria più rapida che spesso provoca però condotte controproducenti e conflittuali;
  2. coinvolgere i dipendenti nel processo di cambiamento, non solo ascoltando ma stimolando proposte per orientare le scelte finali, producendo cambiamenti di atteggiamento sul lungo termine ma scontrandosi spesso con gli obiettivi quotidiani delle persone.

Accanto a queste ben note modalità, per indurre cambiamenti migliorativi, recentemente sono disponibili le cosiddette strategie di “nudging” (“spinta gentile”). Spingere gentilmente si basa sul fatto che le persone non sempre fanno scelte razionali e informate, anzi la maggior parte delle scelte quotidiane viene eseguita in modo intuitivo. E allora, tali comportamenti automatici sembrerebbero difficili da cambiare solo con maggiori informazioni o argomentazioni astratte. Ciò che invece sembra funzionare sono i nudges: interventi a basso costo, spesso basati sulla gestione delle informazioni, che sollecitano il comportamento delle persone in una particolare direzione senza però restringere la loro libertà di scelta. Adottare tali strategie significa creare condizioni esterne affinché i nostri comuni automatismi (per esempio: sensibilità a ciò che fanno gli altri, preferenze per scelte predefinite o già sperimentate in passato, semplificazione di problemi, pregiudizi ecc.) ci spingano verso la scelta più adatta. Usare i nudges in modo trasparente ed etico può voler dire migliorare il lavoro, incrementare la produttività e promuovere il benessere delle persone. Possono essere utilizzati, ad esempio, per semplificare procedure complesse, ridurre l’uso della carta, promuovere trasparenza, lavorare per obiettivi, ridurre la durata dei meeting, esprimere gratitudine e dare feedback adeguati, favorire le interazioni informali e, di conseguenza, far apprezzare di più il proprio posto di lavoro. Un esempio lampante è stato fornito da Thaler, premio Nobel nel 2017, riguardo alla spinta gentile adottata da Google per facilitare la scelta di cibi salutari nelle mense aziendali. Non si è fatto altro che modificare l’ordine di presentazione,  ovvero una maggiore visibilità e accessibilità dei cibi meno dannosi e la facilità di sceglierli senza doverci pensare troppo.

Queste sono solo tre delle tante strategie che offrono ottimi risultati per il benessere personale e organizzativo. Certo, rendere salubre un ambiente di lavoro è responsabilità di chi lo dirige ma anche dei singoli che lo compongono, in base ai ruoli di ciascuno e al potere di incidenza che formalmente ognuno ha, ma anche in base a quello che informalmente viene riconosciuto come oggettivo potere di influenza sull’altro, a prescindere da qualsiasi grado gerarchico.

La consapevolezza della cultura organizzativa orientata alla qualità della vita lavorativa esiste, ma non basta, si può fare di più e soprattutto sono necessari intelligenza e coraggio gestionale, competenze discriminanti nel guidare le persone e le organizzazioni

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Vittoria Olivieri
Psicologa del lavoro. Svolge attività di orientamento formativo e professionale per studenti e lavoratori. Dal 2017 accompagna lavoratori e aziende nell’implementazione di percorsi di Change Management.
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Vittoria Olivieri
Psicologa del lavoro. Svolge attività di orientamento formativo e professionale per studenti e lavoratori. Dal 2017 accompagna lavoratori e aziende nell’implementazione di percorsi di Change Management.
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