A giudicare dalle notizie in TV ci stiamo mettendo la pandemia alle spalle. Perché il tasso di positività al 10% e 100mila positivi al giorno sono ritenuti accettabili per l’Italia se le terapie intensive negli ospedali diminuiscono. Riaprono le discoteche e gli stadi torneranno presto al 100%.
L’Inghilterra ha già tolto qualsiasi restrizione, contro il parere dei medici, ma gli anglosassoni hanno una cultura liberista e gli va bene così. Anche la Spagna ha già riaperto.
Tutto bene? Forse.
La variante Omicron sta diventando endemica, non ci fa più paura e la sensazione di vedere la luce in fondo al tunnel è diffusa. Eppure c’è un rischio sociale che si trascinerà ancora per un po’, sono i sintomi da “long-Covid” e avranno effetti sulla vita personale e sul lavoro di molti che per il servizio sanitario sono ufficialmente guariti.
Lo scorso 17 gennaio il tampone di verifica certificava la mia negatività. Dopo una breve euforia per essermi messo alle spalle 10 giorni di febbre, raffreddore, tosse e dolori muscolari a causa della “variante Omicron”, la gioia per la riacquistata libertà è durata poco.
Oggi mi sono accorto di essere stato vittima di un malessere generalizzato successivo. Uno stato di debolezza dovuto alla riduzione della forza muscolare, affaticamento e insufficiente reazione agli stimoli. Ma anche insonnia, difficoltà di concentrazione e una leggera forma depressiva che ha fatto scadere clamorosamente la mia produttività sul lavoro per un paio di settimane.
L’ansia no, quella si è manifestata in un mio amico attualmente in cura dallo psicologo per il “long-Covid”. Titolare di un’impresa, qualche tempo dopo la guarigione iniziò a non volersi più occupare del suo lavoro passando le giornate tappato in casa.
Il noto virologo statunitense Anthony Fauci aveva già lanciato l’allarme lo scorso anno: i sintomi da “long-Covid” possono durare a lungo e presentarsi anche in casi di pazienti rimasti asintomatici.
Quale sarà l’effetto sociale e psicologico su persone che una volta guarite sono ritornate alle loro mansioni è di difficile previsione, ma non va sottovalutato.
L’OMS, definisce la condizione come un insieme di sintomi che esordiscono in genere entro tre mesi dall’infezione acuta, durano per almeno un paio di mesi e non sono spiegati da una diagnosi alternativa. I sintomi possono essere di nuova insorgenza dopo il recupero iniziale dall’infezione, persistere dalla contrazione del virus o manifestarsi in maniera fluttuate.
Il National Health Service britannico preferisce così parlare di “post-Covid” per indicare chi, pur manifestando sintomi lievi in fase acuta, ha sviluppato poi disturbi a lungo termine. Il punto è che i medici si trovano ad affrontare uno spettro di casi molto vario nei loro pazienti, una serie di condizioni di malessere ad oggi inspiegabili. Eccetto, evidentemente, per chi ha avuto uno stress traumatico da ricovero in terapia intensiva.
Sicuramente il rientro al lavoro può essere difficile.
In maniera molto illuminante, a fine 2021, l’Azienda Sanitaria della regione Trentino Alto Adige ha stipulato con INAIL un accordo, che permette di vedersi riconosciuti anche dal punto di vista della medicina del lavoro i danni a lungo termine in seguito ad infezioni lavoro-correlate.
Siamo solo agli inizi dell’osservazione del fenomeno, però è chiaro che il “long-Covid” abbia un effetto sulla sfera sociale e quella professionale. Eppure non se ne tiene adeguatamente in considerazione i rischi.
Per questo trovo inaccettabile che nell’ultima Legge di Bilancio il governo Draghi non abbia voluto inserire nelle agevolazioni il “bonus psicologo” – come chiesto da molte parti – preferendo aiuti dove non ce ne sarebbe più bisogno: esempio il bonus ristrutturazioni per l’edilizia, rifinanziato anche per il 2022.
Quindi bene che la Regione Lazio, il Comune di Milano e altri vari Enti Locali stiano finanziando con i loro bilanci sostegni psicologici alle persone più colpite dalla pandemia.
Anche questa è un’emergenza ma bisogna avere una sensibilità culturale per individuarla.