Un anno di emergenza sanitaria. Cosa le aziende e i lavoratori hanno imparato

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L’emergenza sanitaria da Covid-19 finirà il 30 aprile o sarà prorogata con l’ennesimo decreto? 

Dodici mesi dopo quel fatidico 9 marzo 2020, quando il premier Giuseppe Conte comunicò agli italiani che avremmo dovuto fare il lockdown – come le immagini ci mostravano quello a Wuhan – abbiamo capito che siamo ancora sospesi a provvedimenti che hanno stravolto la nostra vita sociale.

Il primo campanello d’allarme fu il 31 dicembre 2019, quando le autorità sanitarie cinesi comunicavano all’Organizzazione Mondiale della Sanità casi di “polmonite da causa sconosciuta”, ma solo a febbraio in Occidente ci iniziammo a preoccupare perdendo tempo prezioso.

La domanda iniziale sull’emergenza sanitaria non è correttamente formulata. Quella corretta è: quanto dura una pandemia in epoca moderna?

Una pandemia ha due tipi di fine: una naturale, quando il virus che l’ha provocata scompare, e una sociale.

Ovvero quando le persone si adeguano alla situazione e sono disposti a correre dei rischi in termini di salute, tornando a comportamenti simili a quelli precedenti l’emergenza sanitaria.

Dall’aperitivo sui Navigli allo shopping nel Quadrilatero della Moda, sembra che al momento Milano pensi alla seconda ipotesi. Però l’emergenza sanitaria resta e se ne aggiunge un’altra, quella economica, legata molto al tema del lavoro…Per chi non l’ha perso.

Lo smart working

Abbiamo diviso il mondo tra chi faceva smart working prima che arrivasse la pandemia da Covid-19 e chi no, ma oggi questo confine non è più interessante. Impiegati e manager hanno capito che si può lavorare a distanza e garantire la continuità operativa dell’azienda.

Secondo l’ISTAT a Gennaio 2020 erano in modalità agile appena l’1,2% dei lavoratori italiani, ad aprile erano il 31,4%. E qui i soggetti di cui sopra hanno capito un’altra cosa: servono regole, altrimenti a casa si rischia di lavorare h-24!

Una nuova forma di stress è stata sperimentata e magari lo smart worker post-Covid19 preferirà il coworking agli spazi domestici, possibilmente da raggiungere a piedi o in bicicletta. Ore nel traffico risparmiate, meeting trasferiti on line e in generale un’organizzazione del lavoro diversa, più smart.

A proposito dell’on line. Lo abbiamo visto crescere tanto che in pochi mesi ha bruciato tappe di anni, una decina addirittura secondo molti economisti. Non solo e-commerce, si è consolidata l’abitudine di lavorare da remoto ogni volta che lo si può fare. Anche perché, spinti dal fatto di essere in emergenza sanitaria, molte aziende hanno deciso di contrattualizzare lo smart working.

Interessante a questo collegare una riflessione di Beniamino Pagliaro su DLui di Repubblica dal titolo Working smart Working Less: << negli uffici – o sui nostri schermi – non dovremo più confondere la presenza con il presenzialismo. […] Però l’adozione forzata della tecnologia ha, potenzialmente, un effetto sull’organizzazione gerarchica e piramidale. La mappa dell’ufficio condiziona di meno le nostre carriere>>.

Su quest’ultimo punto a mio avviso è opportuno essere prudenti, lo scopriranno i diretti interessati e non a breve. 

Lavorare meno lavorare meglio

“Non torneremo all’economia di prima. Ci sarà una ripresa, ma verso un’economia differente” ha detto Jerome Powell, il governatore della Federal Reserve, e la banca centrale USA come pulpito è piuttosto attendibile. 

Invece, una delle frasi più sfortunate del 2020 è attribuita al sindaco di Milano Beppe Sala, quel suo “Torniamo a lavorare” a giugno fu una gaffe clamorosa, considerando che tutta l’amministrazione del comune meneghino era appunto in smart working

Tuttavia, la stragrande maggioranza degli HR italiani ritiene che il futuro sarà una gestione ibrida tra presenza in ufficio e lavoro da remoto e dovranno per forza essere ripensate le politiche urbane della città post-Covid19 in termini di servizi.

In quest’ottica sono interessanti le parole della nota architetta franco-milanese Patricia Viel che ha dichiarato come << […] tutti abbiamo imparato con formidabile brutalità che se siamo bravi a organizzare la nostra vita quotidiana e a gestire un rapporto di tipo fiduciario, possiamo lavorare anche non andando tutti i giorni in ufficio. Questa è la legacy che ci lascia questa avventura, non certo il fatto che in un borgo ci si ammali meno che in città>>.

Questo sì, aziende e lavoratori lo hanno imparato.

L’emergenza sanitaria da Covid-19 finirà il 30 aprile o sarà prorogata con l’ennesimo decreto? 

Dodici mesi dopo quel fatidico 9 marzo 2020, quando il premier Giuseppe Conte comunicò agli italiani che avremmo dovuto fare il lockdown – come le immagini ci mostravano quello a Wuhan – abbiamo capito che siamo ancora sospesi a provvedimenti che hanno stravolto la nostra vita sociale.

Il primo campanello d’allarme fu il 31 dicembre 2019, quando le autorità sanitarie cinesi comunicavano all’Organizzazione Mondiale della Sanità casi di “polmonite da causa sconosciuta”, ma solo a febbraio in Occidente ci iniziammo a preoccupare perdendo tempo prezioso.

La domanda iniziale sull’emergenza sanitaria non è correttamente formulata. Quella corretta è: quanto dura una pandemia in epoca moderna?

Una pandemia ha due tipi di fine: una naturale, quando il virus che l’ha provocata scompare, e una sociale.

Ovvero quando le persone si adeguano alla situazione e sono disposti a correre dei rischi in termini di salute, tornando a comportamenti simili a quelli precedenti l’emergenza sanitaria.

Dall’aperitivo sui Navigli allo shopping nel Quadrilatero della Moda, sembra che al momento Milano pensi alla seconda ipotesi. Però l’emergenza sanitaria resta e se ne aggiunge un’altra, quella economica, legata molto al tema del lavoro…Per chi non l’ha perso.

Lo smart working

Abbiamo diviso il mondo tra chi faceva smart working prima che arrivasse la pandemia da Covid-19 e chi no, ma oggi questo confine non è più interessante. Impiegati e manager hanno capito che si può lavorare a distanza e garantire la continuità operativa dell’azienda.

Secondo l’ISTAT a Gennaio 2020 erano in modalità agile appena l’1,2% dei lavoratori italiani, ad aprile erano il 31,4%. E qui i soggetti di cui sopra hanno capito un’altra cosa: servono regole, altrimenti a casa si rischia di lavorare h-24!

Una nuova forma di stress è stata sperimentata e magari lo smart worker post-Covid19 preferirà il coworking agli spazi domestici, possibilmente da raggiungere a piedi o in bicicletta. Ore nel traffico risparmiate, meeting trasferiti on line e in generale un’organizzazione del lavoro diversa, più smart.

A proposito dell’on line. Lo abbiamo visto crescere tanto che in pochi mesi ha bruciato tappe di anni, una decina addirittura secondo molti economisti. Non solo e-commerce, si è consolidata l’abitudine di lavorare da remoto ogni volta che lo si può fare. Anche perché, spinti dal fatto di essere in emergenza sanitaria, molte aziende hanno deciso di contrattualizzare lo smart working.

Interessante a questo collegare una riflessione di Beniamino Pagliaro su DLui di Repubblica dal titolo Working smart Working Less: << negli uffici – o sui nostri schermi – non dovremo più confondere la presenza con il presenzialismo. […] Però l’adozione forzata della tecnologia ha, potenzialmente, un effetto sull’organizzazione gerarchica e piramidale. La mappa dell’ufficio condiziona di meno le nostre carriere>>.

Su quest’ultimo punto a mio avviso è opportuno essere prudenti, lo scopriranno i diretti interessati e non a breve. 

Lavorare meno lavorare meglio

“Non torneremo all’economia di prima. Ci sarà una ripresa, ma verso un’economia differente” ha detto Jerome Powell, il governatore della Federal Reserve, e la banca centrale USA come pulpito è piuttosto attendibile. 

Invece, una delle frasi più sfortunate del 2020 è attribuita al sindaco di Milano Beppe Sala, quel suo “Torniamo a lavorare” a giugno fu una gaffe clamorosa, considerando che tutta l’amministrazione del comune meneghino era appunto in smart working

Tuttavia, la stragrande maggioranza degli HR italiani ritiene che il futuro sarà una gestione ibrida tra presenza in ufficio e lavoro da remoto e dovranno per forza essere ripensate le politiche urbane della città post-Covid19 in termini di servizi.

In quest’ottica sono interessanti le parole della nota architetta franco-milanese Patricia Viel che ha dichiarato come << […] tutti abbiamo imparato con formidabile brutalità che se siamo bravi a organizzare la nostra vita quotidiana e a gestire un rapporto di tipo fiduciario, possiamo lavorare anche non andando tutti i giorni in ufficio. Questa è la legacy che ci lascia questa avventura, non certo il fatto che in un borgo ci si ammali meno che in città>>.

Questo sì, aziende e lavoratori lo hanno imparato.

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Francesco Sani
Giornalista Pubblicista laureato in Sociologia all'Università di Firenze. È Direttore della rivista Firenze Urban Lifestyle e collabora con altri magazine e blog su temi attinenti Cultura, Ambiente e Società. Scrive e ha scritto per Il Fatto Quotidiano, Smart Working Magazine e Artribune.
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Francesco Sani
Giornalista Pubblicista laureato in Sociologia all'Università di Firenze. È Direttore della rivista Firenze Urban Lifestyle e collabora con altri magazine e blog su temi attinenti Cultura, Ambiente e Società. Scrive e ha scritto per Il Fatto Quotidiano, Smart Working Magazine e Artribune.
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