Il modello ibrido e il futuro del lavoro

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Il “ritorno in ufficio” è morto, almeno nel lungo periodo, parola della Stanford University. Dopo gli alti e bassi del lavoro da remoto nel periodo a cavallo tra la pandemia e il 2023 adesso, a quattro anni dallo shock del lockdown, all’università californiana gli economisti sono concordi: le tendenze tecnologiche e demografiche a lungo termine suggeriscono che la prevalenza del lavoro a distanza potrebbe aumentare in modo irreversibile dal 2025.

In particolare sarà il “modello ibrido” a guidare il trend, come spiegato anche in un recente articolo de Il Sole 24 Ore a firma Gianni Rusconi. Nello specifico, si cita un recente rapporto di IWG, uno dei più importanti fornitori al mondo di spazi per il coworking, che ha messo sotto la lente di ingrandimento l’emergere dentro alcune organizzazioni multinazionali – tra cui Meta – di una nuova figura, quella del Chief Hybrid Officer. Questo professionista avrebbe il compito di trovare le soluzioni più adeguate per garantire la collaborazione più efficace possibile tra i diversi colleghi che svolgono la mansione in modalità ibrida tra la sede e gli spazi esterni all’organizzazione. 

La conclusione del rapporto di IWG è che l’adozione del modello ibrido non è soltanto sinonimo di maggiore flessibilità operativa, ma anche occasione per lo sviluppo di una cultura aziendale più dinamica e inclusiva. Tanti ritorni positivi dunque, per favorire la crescita di prospettive diverse e contribuire a migliorare il benessere delle persone al lavoro.

Nuovo modello, nuovi spazi. E nuove città?

Evidentemente, sposare un modello di lavoro ibrido comporta, per le aziende e i manager, adottare un approccio più olistico alle esigenze del personale in tema di inclusione e fruizione degli uffici. Una realtà come Workitect ci insegna che occorrono spazi basati sul modello dell’Activity Based Working, dove ogni ambiente di lavoro è pensato per favorire una specifica tipologia di attività (di concentrazione, di collaborazione, di comunicazione o di contemplazione). Gli ambienti di lavoro saranno quindi presto ripensati rispetto ai cambiamenti culturali e socio-economici che vanno delineandosi nello scenario sopra-descritto. Questa è una riflessione sulla sfida che attende chi li progetta ma non investe solo i designer. 

A un livello più alto dovrebbe far porre qualche domanda a chi ha compiti di pianificazione urbana e logistica dei trasporti. Proprio su questo blog in passato abbiamo “denunciato” che a Milano, dalla metà degli anni Settanta alla metà degli anni Novanta, lo stock immobiliare di uffici è raddoppiato e addirittura nell’hinterland è quintuplicato. Non solo, secondo uno studio di Scenari Immobiliari, si stima che entro il 2035 nel capoluogo lombardo saranno costruiti ulteriori 650mila mq di nuovi uffici. Nel frattempo, 400.000 residenti si sono spostati dal centro verso la periferia. 

È evidente che il modello edilizio di sviluppo economico che ha trainato le grandi città italiane negli ultimi quarant’anni – basato sulla rendita immobiliare e sul valore dell’edificio più alto di qualunque attività si svolga al suo interno – mal si abbina agli impatti sociali e agli spostamenti di milioni di persone che cambieranno le abitudini in funzione della nuova flessibilità al lavoro.

Se tutti siamo concordi che la prevalenza del modello di lavoro ibrido sia un trend irreversibile, gli uffici del futuro vanno ripensati. Ma anche la città.

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Francesco Sani
Giornalista Pubblicista laureato in Sociologia all'Università di Firenze. È Direttore della rivista Firenze Urban Lifestyle e collabora con altri magazine e blog su temi attinenti Cultura, Ambiente e Società. Scrive e ha scritto per Il Fatto Quotidiano, Smart Working Magazine e Artribune.
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Francesco Sani
Giornalista Pubblicista laureato in Sociologia all'Università di Firenze. È Direttore della rivista Firenze Urban Lifestyle e collabora con altri magazine e blog su temi attinenti Cultura, Ambiente e Società. Scrive e ha scritto per Il Fatto Quotidiano, Smart Working Magazine e Artribune.
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